Essere cristiani in Pakistan
Vorrei ricordare il testamento di Shahbaz Batti, ministro pakistano cristiano, ucciso dagli estremisti.
«Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore, donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo Paese islamico. Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: “No, io voglio servire Gesù da uomo comune”. Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora – in questo mio battagliero sforzo di aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan – Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire».
Ora al fratello medico, Paolo, formato a Padova, il governo pakistano ha chiesto di continuare il suo lavoro in favore delle minoranze del paese.
Leggendo il testamento di questo cristiano pakistano mi son venuti alla mente i miei confratelli missionari del Pime arrivati in Pakistan nel 1855. Il “ricordare i nostri’ è per me “malattia di famiglia”. Oggi lavorano nel Pakistan orientale divenuto Bangladesh nel 1971.
Leggo nelle prime cronache del Pime.
«I primi missionari del Pime destinati al Bengala, padre Albino Parietti, padre Luigi Limana, padre Antonio Marietti e fratel Giovanni Sesana, sbarcano a Calcutta all’inizio del giugno 1855 e il 17 giugno arrivano a Berhampur. Cominciano una vita da monaci: studio e preghiera, preghiera e studio, imparano l’hindi e il bengalese. Vivono in una povertà estrema. Appena riescono a farsi capire, i tre sacerdoti si stabiliscono in tre località diverse. Il superiore Parietti a Berhampur, Limana a Krishnagar con fratel Sesana e Marietti a Jessore».
«Studiamo a tutta posa e con vero calore perché senza lingua saremmo statue. …4 ore di scuola e 5 di studio, oltre agli altri doveri diversi. E ciò con 44°». (padre, Parietti, Berhampur, 26 luglio 1855). «I nostri cattolici sono così dispersi e così bisognosi dell’assistenza del missionario che di tre che siamo, siamo divisi in tre differenti province, e ciò per assentimento del nostro amatissimo Vescovo di Calcutta, che molto approvò tale divisamento. (padre Parietti, Berhampur, 19 marzo 1857) «Nella primavera del 1857 scoppia la “rivolta dei sepoys”. I civili inglesi fuggono. I missionari restano, affermando di essere “protetti dalla sola Divina Provvidenza», come scrive padre Parietti. Non hanno infatti nessun fastidio da parte dei ribelli. «La Chiesa – diceva qualche tempo fa padre Sozzi – pur senza accorgersi, e pur facendo pochi e incerti cristiani, ha trasformato il Bengala. (…) le idee cristiane, testimoniate e predicate da questa piccola comunità, hanno cambiato radicalmente l’ambiente, come, io credo, hanno cambiato il mondo».