Ettore
Diplomato meccanico, ha 29 anni, un buon lavoro, e pensandoci si convince che il matrimonio non va bene per lui: perfezionista e preciso com’è, renderebbe difficile la vita a moglie e figli. S’accorge che si sente in pace, felice quando riesce a fare qualcosa di buono per gli altri, anche un piccolo aiuto nascosto. “Forse la mia vita deve essere spesa per i poveri. Ma quali poveri? Dove ce ne sono tanti, i più malconci.” Così Ettore Caserini, nato a Pizzighettone sulle rive dell’Adda, decide di accostare una ONG che opera nel “Terzo Mondo”, e poi trova qualcuno che lo orienta al PIME, dove entra nel 1961 e completa la formazione missionaria nel 1965. Per tutta la vita terrà fede al proposito iniziale: fare tutto quel po’ di bene che posso fare, ma farlo bene.
Parte per l’India, e mentre lavora alla scuola tecnica di Eluru (Andhra Pradesh) impara il telegu e l’inglese. Dopo la guerra che nel 1971 sgancia il Bengala dal Pakistan facendo nascere il Bangladesh, Ettore chiede di andar là, a trovare gli amici che hanno sofferto a
lungo. E’ fatto così: sembra un “lupo solitario” e sa stare da solo senza problemi; ma sa che cosa sia l’amicizia, condivide volentieri, s’interessa – ha cuore. I superiori non solo gli danno il permesso, ma lo invitano a trasferirsi per dare una mano nella nazione appena nata. Gli dispiace lasciare l’India, ma è pronto a ricominciare daccapo, studia il bengalese e per 10 anni ha un ruolo di primo piano nel mettere in piedi e far funzionare la “Novara Technical School” a Dinajpur. Il suo pallino” è la formazione umana dei giovani, l’addestramento professionale visto come addestramento alla vita, perché i suoi studenti diventino uomini seri, affidabili, che sanno che cosa sono il dovere e la lealtà. Dopo 10 anni, altra svolta: il Vescovo gli chiede di prendersi cura di un sottocentro, Putimari, finora trascurato. dove la diocesi ha terreni mal coltivati, e un piccolo edificio accanto a villaggi aborigeni in parte cristiani. Ettore accetta e per 16 anni trasforma l’ambiente: “Caspita, ma tu qui hai messo insieme un pezzetto di Svizzera!” gli dico quando vado a trovarlo. Sorride contento: “Anche a loro piacciono le cose belle, funzionali, e le cose belle entrano nella persona”. Già, le cose belle… Racconta che durante il periodo di formazione visitò Firenze. Ne rimase tanto incantato che ebbe una “violenta” crisi vocazionale: “Come faccio ad andarmene chissà dove, lontano da tante meraviglie dell’arte?” Gli bastarono 24 ore per rimettere al primo posto Gesù e i poveri – ma l’amore per l’arte, pittura, scultura, architettura, musica non lo abbandonò mai.
A Putimari, Ettore è incaricato anche della cura pastorale dei villaggi, e vi s’impegna con lo stesso gusto e precisione con cui opera nel campo tecnico. E’ convinto che il Vangelo sia la chiave per una formazione umana completa. Fa catechesi, predica, visita i malati e
altro, senza complessi di inferiorità verso i preti e senza clericalismi. In quel periodo visita i missionari del PIME in Myanmar, e mi dirà commosso: “Il mio modello è Fratel Felice Tantardini (oggi Servo di Dio), stare con lui mi ha veramente fatto bene”. Nel 1998, altra
svolta: lo chiamano a dirigere la “Delegazione Missionari Laici” dell’Istituto; accetta con fatica, ma ce la mette tutta per dare fiducia, e rilanciare questa vocazione che lui vive con gioia e ritiene preziosa. Termina l’incarico un po’ deluso, ma non rifiuta un altro
cambiamento rilevante: per permettere al suo successore (Fratel Mario Fardin) di lasciare la scuola tecnica di Watuluma, accetta di sostituirlo. Vive e lavora in Papua Nuova Guinea dal 2002 al 2004 quando, dopo un breve periodo in Italia, ritorna al suo Bangladesh,
per custodire il santuario mariano costruito in occasione del giubileo del duemila.
Anche qui, con gli anni, farà emergere il suo gusto per il bello, per le cose organizzate a puntino, per la natura, per le devozioni ben seguite. Per tutta la vita è stato povero, sobrio, fedele alla preghiera, senza ostentazione, alzandosi la mattina molto presto, “Tanto
io mi sveglio comunque…”
Negli ultimi anni cerca di nascondere la fatica e gli acciacchi, lavorando puntigliosamente e senza risparmio, finchè il suo organismo cede di schianto. Viene accompagnato in Italia, nella casa per gli ammalati, a Lecco. “Mi trovo bene – mi dirà – mi hanno accolto con
tanta attenzione, e c’era persino il mio nome già scritto sulla porta della stanza”. Capisce che non è il caso di pensare al ritorno, accetta serenamente, contento di ricevere notizie, e delle visite di chi gli racconta come vanno le cose in Bangladesh.
Il Signore l’ha chiamato a sé il 9 aprile 2016. Secondo me, lassù, sta dando una mano a rendere più belli i posti che preparano per noi.
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