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Icona decorativaIcona decorativa19 Agosto 2022 Franco Cagnasso

Futuro

Dopo 20 anni in Bangladesh, arrivando al “Seminario Teologico Internazionale” del PIME a Monza, ho trovato un’entusiasmante varietà di giovani da Africa, Asia, America del Sud, che si sentono chiamati ad essere missionari secondo i tre criteri che il PIME si è dato e che propone nella sua formazione. Per esprimerli in breve, l’Istituto ha persino rispolverato un poco di latino: ad gentes, ad extra, insieme(ai non cristiani, all’estero, insieme) – sempre dando precedenza alle situazioni di sofferenza, emarginazione e povertà – spirituali e non. Questo modo di descriverci è stato formulato in tempi relativamente recenti, ma noi ci pensiamo così fin dai primi passi dei nostri fondatori e predecessori. Ora, insieme agli altri “educatori” di questi giovani, devo aiutarli a capire se il PIME fa davvero per loro oppure no, e per quali motivi; dovranno anche chiedersi con quali risorse spirituali andare avanti, appassionati del Vangelo, e nella fiducia che il loro cammino è e sarà accompagnato dal Risorto, che li chiama ad essere suoi testimoni. Non si tratta di poca cosa: come realizzarla? Tra l’altro, mi domando anche: se mi riferisco all’esperienza dei “miei tempi”, e dei missionari che mi hanno preceduto, quanto posso farmi capire dai giovani e quanto io posso capirli? I contesti sono diversi, e anche le parole hanno significati in parte differenti. Per tentare di rispondere ci vuol tempo, e bisogna conoscersi meglio. In questa scheggia mi limito a indicare qualche intuizione. I missionari che hanno accolto nelle missioni quelli della mia generazione, approssimativamente e superficialmente classificabile come “sessantottina”, erano eredi di una tradizione che fin dai primi giorni si era rivolta con grande impegno alle povertà più evidenti: malattie, mancanza di istruzione scolastica, situazioni di denutrizione croniche o ricorrenti, soprusi dei colonialisti, dei grandi proprietari terrieri, delle maggioranze religiose ed etniche, e anche superstizioni e tradizioni, alcune delle quali tenevano la gente nella paura e creavano discriminazioni… Fra noi giovani, in qualche modo influenzati dalla così detta ”contestazione”, c’erano tante domande, anche molto critiche, su come questi problemi venivano affrontati e su come collegare l’evangelizzazione, che comportava l’insegnamento di dottrine nuove, con l’abbandono di tradizioni e religioni, per convertirsi al cristianesimo. Si cercavano “strade nuove”, ci si interrogava se a fronte di situazioni evidenti di povertà e di “sottosviluppo”, fosse giusto annunciare un vangelo “spirituale”. “Evangelizzazione o sviluppo?”. La domanda circolava insistente nel mondo missionario e nella Chiesa, dando per scontato che noi fossimo gli sviluppati, e che fra vangelo e sviluppo ci fosse una sorta di alternativa: o, o… “Non si può annunciare il vangelo a chi ha la pancia vuota” si sentiva dire, con l’aggiunta che “A chi ha fame non bisogna dare un pesce, ma insegnare a pescare”. Spesso queste semplificazioni venivano accettate come un’ovvietà, e portavano a dare la precedenza allo sviluppo, convinti che questo dovesse essere compito primario dei missionari. Era scontato che i missionari venissero da un mondo “cristiano”, che era un mondo “sviluppato”, e dunque avesse il dovere di fare giustizia per superare il “sottosviluppo”. Il passato coloniale era un peso di cui sbarazzarsi – ma come? Era caduta una posizione del tutto negativa e chiusa nei confronti delle religioni; c’erano risposte nuove alle domande sulla “salvezza dei non cristiani” e sulla libertà religiosa, accompagnate spesso da riflessione teologica che affrontava temi nuovi, e pure da teorie sociali, politiche e ideologiche che cercavano di re-interpretare motivazioni religiose e di fede o anche di lasciarle da parte. C’era un certo “senso di colpa” per il fatto di appartenere a paesi e culture che erano stati e tuttora erano sfruttatori. La grande distanza esistente fra le condizioni di vita quotidiana dei paesi da cui partivano i missionari e le condizioni di vita dei “paesi di missione” poneva interrogativi angoscianti – come io stesso ho sperimentato in Bangladesh. Si può forse dire che in alcuni c’era una sorta di “versione laica” dello zelo che aveva spinto i missionari del passato a scegliere i luoghi più lontani e trascurati e a desiderare anche il martirio; l’obiettivo non era più espresso come “annuncio del Vangelo”, “salvezza”, “conversione”, ma piuttosto come “fare giustizia”, “restituire” il mal tolto. C’era anche, in termini diversi ma con un atteggiamento psicologico analogo, una specie di “eroismo romantico” che in passato sfidava il paganesimo, in tempi più recenti sfidava la “ingiustizia” e il “sottosviluppo”, con una certa dose di sopravvalutazione di ciò che i missionari potessero effettivamente fare, di quanto la loro attività potesse incidere su questi problemi. Con tutto ciò, la mia valutazione sulla missione svolta dai miei coetanei è positiva, e ho ammirazione riconoscente per molti di loro. Ma oggi, come sono le prospettive? I giovani con cui vivo per lo più non partono da “paesi cristiani” per andare a “paesi non cristiani”. Non vengono da “paesi sviluppati” e non si dirigono a paesi “in via di sviluppo”. La diversità economica e storica (colonialismo, ecc.) tra paese di partenza e paesi di destinazione, che ci poneva tanti interrogativi e creava sensi di colpa, ora non c’è. I seminaristi di oggi sono forse più vicini alle condizioni in cui si trovavano i missionari della Chiesa nei suoi primi anni, ai suoi primi passi, che non distingueva paesi di missione e non, sviluppati e non, e nemmeno aveva esperienza di “paesi cristiani” e di società “scristianizzate”. Il loro obiettivo era che la Parola di Dio non si fermasse, “corresse”, e poi avrebbe dato i suoi frutti. L’espressione “conquistare il mondo a Cristo”, spesso usata da p. Manna, era sconosciuta, mentre era vivo il desiderio di dare a tutti la possibilità di ascoltare l’annuncio – a cui avrebbero risposto “coloro che erano stati scelti dallo Spirito”. La generazione di missionari che si sta facendo avanti ora, non propone rotture con il passato: anzi, molti di loro attribuiscono la loro vocazione al fascino che hanno esercitato i missionari della generazione che li ha preceduti; però si muove in un contesto diverso, per cui credo che emergeranno modelli di vita missionaria in parte diversi. Non ho mai apprezzato la “futurologia”, né chi scrive libri per dirci come sarà il mondo fra 20 o 50 anni; neppure do importanza allo studio di grandi, globali nuove “strategie della missione” con visioni onnicomprensive che prevedono rinnovamenti radicali di tutto. Perciò non pretendo di spiegare in anticipo come andranno le cose. Ma penso che dobbiamo, con umile fiducia, stare attenti alla silenziosa opera dello Spirito, che instancabilmente rinnova, ricrea, rilancia, approfittando anche dei nostri fallimenti, sbagli, dubbi. Non è detto che tutto ciò che sta cambiando, e forse ci preoccupa molto, sia premessa di guai, decadenze, invito a rimpiangere il passato. Franco Cagnasso Esino Lario, 18 agosto 2022

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