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Icona decorativaIcona decorativa11 Febbraio 2021 Franco Cagnasso

Insieme

“Da gennaio a dicembre 2020, da Rancio ci hanno lasciato otto confratelli. Nel solo mese di gennaio di quest’anno 2021, altri otto confratelli ci hanno lasciato. Cinque sono ancora all’ospedale: Fratel Agostino Sacchi, suor Samuela, p. Chiesa, p. Andena, p. Trobbiani.”. Questo il laconico messaggio ricevuto a fine gennaio da p. Quirico Martinelli, missionario in Bangladesh, attualmente rettore della comunità di Rancio. Era stato preceduto dalle notizie sulle ultime ore, e sulla morte, di p. Luigi Carlini. A Rancio, quartiere di Lecco, c’è la casa per missionari anziani e ammalati del PIME; dopo mesi di vita “blindata” per proteggersi, il virus è entrato e l’ha fatta da padrone. Ma che c’entra questo con una scheggia che si definisce “di bengala”? C’entra, perché ha fatto emergere qualcosa che noi, missionari del PIME in Bangladesh, raramente esprimiamo. Ci sentiamo donati al Bangladesh, paese che critichiamo e di cui brontoliamo forse, ma che amiamo e da cui non vogliamo staccarci; allo stesso tempo, nel profondo, ci sentiamo del PIME. Un’istituzione, certo; ma ciò che ci tocca sono le persone che ne fanno parte. I nomi che si susseguivano nei “bollettini” di malattie e di morti mandati da p. Quirico sono tutti di persone che conosco bene, che hanno lavorato ai quattro angoli del mondo, alcuni dei quali non ho rivisto da molti anni, ai quali voglio bene. La loro sofferenza e la loro morte hanno portato a galla con dolore, ma anche con un senso di gioia e di gratitudine, la mia ammirazione per loro. Prima che se ne andasse anche p. Carlini, un intenso articolo di p. Gianni Criveller aveva parlato degli altri, con pennellate cariche di simpatia, includendo anche p. Pippo Filandia l’unico che è morto per il virus non a Lecco, ma a Catania, città di cui era originario. Conoscevo bene p. Carlini; nel messaggio che dà notizia della sua “partenza” e che riassume molto brevemente la sua vita, p. Marco – segretario generale del PIME (caro p. Marco, immagino la tua pena e fatica nel preparare in un solo mese ben nove necrologi!) – riprende un suo pensiero da un’intervista che aveva concesso a Mondo e Missione, quando la salute lo aveva costretto a ritornare definitivamente in Italia, dopo48 anni di servizio nell’Amazzonia brasiliana: “Il Signore mi ha dato la grazia di saper camminare insieme alle persone, accanto a loro. Con tutti, anche con chi sta in una prigione. Un giorno, in prigione, un uomo pianse molto con me perché vedeva che ero trattato come un detenuto. Ma io anche lì ho sempre agito nello stesso modo: è la relazione personale che crea lo spazio per mostrare il volto di Dio. Se fossi entrato nelle carceri tra i detenuti in un modo diverso, loro non avrebbero accolto questo spazio di misericordia, questa occasione per la conversione. Quando Gesù diceva: Fai questo in memoria di me, non stava solo chiedendo di dire Messa, ma stava chiedendo di portare Messa nella vita, nella vita di tutti i giorni. In questo cammino sono anche cresciuto e cambiato. Cresciuto e cambiato molto». Proprio così. Ognuno s’immerge nell’ambiente che il Signore ha affidato al suo servizio missionario, in paesi lontani; in questa immersione si cresce e si cambia “da missionari”, perché i cambiamenti sono condizionati insieme dal messaggio di cui vogliamo essere testimoni, e dall’ambiente in cui ci troviamo. Le differenze fra noi in un certo senso aumentano, ma non ci si dimentica! Gli anni di seminario, esperienze fatte in comune, come i sei anni che ho trascorso nella Direzione Generale con P. Severino Crimella e a P. Amadio Bortolotto, o la conoscenza fatta con p. Bruno Mascarin e con il suo silenzioso, intenso zelo missionario sulle rive del Rio delle Amazzoni… Queste morti hanno fatto affiorare sentimenti profondi, legami di comune vocazione e impegno di cui quasi non ci si rende conto, ma sono forti. Quando ci arrivano brandelli di notizie sui missionari di altri paesi, notizie gioiose o tristi, di successi o di crisi, sembra che non ci facciamo caso, ma in realtà sentiamo che ci riguardano e ci toccano, ne siamo orgogliosi e contenti, o perplessi e dispiaciuti. Noi missionari del PIME siamo pochi, poco più che quattro gatti, sparpagliati in 19 paesi di cinque continenti; non parliamo molto del nostro istituto, non ci sentiamo a nostro agio etichettando tutto ciò che facciamo; ma ci siamo. Ciascuno, pure se almeno in parte “riplasmato” nel mondo a cui è stato inviato, sa che ci sono altri con cui ci si vuol bene, e che abbiamo in comune la “follia” di voler amare Gesù nella gente con cui ci troviamo. Siamo lontani, non ci incontriamo in alcuni casi per decenni, ma qualche cosa che ci accomuna pur nelle nostre grandi diversità c’è. E basta un’eco anche occasionale e leggera, oppure la notizia triste di una morte che non aspettavamo, per farci capire che siamo “sparpagliati” – come dicevo – ma non dispersi: siamo insieme.

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