Keralesi
Fino a circa quarant’anni fa, dire “missionario” significava dire “occidentale”: tutti i missionari in giro per il mondo erano originari dell’Europa e dell’America del nord. Con un’eccezione, i Keralesi.
Il Kerala è uno stato dell’India meridionale che ha parecchie originalità, rispetto agli altri stati. Ha una popolazione mediamente più istruita e benestante, abituata a muoversi e anche a trasferirsi all’estero, non ha divisioni di caste, ha avuto vari governi comunisti, anche quando il Congress Party dominava a livello nazionale, ha una minoranza cristiana consistente, che appartiene per lo più alla chiesa cattolica di rito Siro-Malabarese, con storia, tradizioni, riti, diritto propri. È una “chiesa apostolica”, che risale all’apostolo s. Tommaso, mentre il rito è stato elaborato con la chiesa di Siria; il rito latino è entrato più tardi, con i commercianti e missionari portoghesi, dando occasione a un penoso conflitto fra l’antica comunità locale e i nuovi arrivati. Ci sono santi e sante, monasteri, santuari, comunità religiose locali e venute da fuori. La chiesa del Kerala aveva un buon numero di preti e suore, e non pochi di loro andavano a svolgere servizio “fuori”. Si trattava di preti diocesani che si trasferivano in altri stati dell’India,in diocesi bisognose di clero, oppure all’estero, e di religiose mandate da varie congregazioni. Sapevano adattarsi, nonostante il cruccio di dover lasciare il Rito Malabarese, cui sono molto legati…
Anche il PIME, negli anni sessanta, si accordò con alcuni vescovi dell’Andra Pradesh per accogliere come membri preti del Kerala – con l’intesa che avrebbero fatto parte del PIME, ma rimanendo a lavorare nelle diocesi dell’Andhra. Si formò presto un gruppetto di una dozzina di keralesi nell’Istituto; si sperava che, grazie a loro,l’Istituto avrebbe avuto una continuità in India, nonostante gli stranieri non ottenessero più il visto di permanenza.
Ma il Capitolo del dopo Concilio, nel 1971, valutò che trattenendo gli indiani in India avremmo trascurato una caratteristica originaria dell’Istituto, e opo un sofferto dibattito decise di chiudere l’esperienza. Gli indiani che erano già membri rimasero, e alcuni di loro accettarono anche di essere destinati fuori dall’India. Uno, il caro amico p. Abraham Aykara, chiese il permesso e passò al St. Thomas Missionary Institute, di rito Siro Malabarese, fondato in quegli anni riprendendo quasi alla lettera le Costituzioni del PIME. Poi, nel 1989, il PIME aprì di nuovo le porta, ma con la clausola opposta alla precedente: non “con il PIME per lavorare in India”, ma “con il PIME per lavorare all’estero”. E oggi Keralesi e altri indiani, con il PIME, sono sparsi per tutto il mondo…
Della generosità missionaria della chiesa del Kerala si ebbe un assaggio anche in Bangladesh, grazie alle Suore della Carità (di Maria Bambina), che accolsero giovani keralesi e ne inviarono alcune nel Bengala, affiancandole alle italiane. Ripensavo alla loro storia il 20 maggio scorso, nella cappella del “Capitanio Convent” a Dhaka, durante la Messa funebre di suor Theonilla, keralese, 85 anni. Era venuta in Bengala (allora Pakistan) nel 1955, rimanendovi fino a oggi, e qui aveva pronunciato i voti definitivi. Anche durante la guerra (1971), pur potendo ritornare in India, rimase. Insegnante, aveva ricoperto diversi incarichi nel suo Istituto. Era una donna attiva, precisa, attenta e discreta, che trasmetteva un senso di serenità. Ho ripensato ad altre keralesi che conosco e sono ancora qui: suor Berchmans, con cui ho collaborato a lungo nel Centro Assistenza Ammalati di Rajshahi; ora, a Jessore, dirige l’ospedale S. Maria, in collaborazione con i Saveriani, accogliendo e organizzando gruppi di medici italiani che a rotazione offrono un prezioso servizio a pazienti poveri. O suor Sandra, una esperta presenza di servizio all’ospedale St. Vincent di Dinajpur, con il PIME. E altre che ci hanno lasciato, come suor Teodora, apprezzatissima infermiera, e suor Pia, morta a Dinajpur a 100 anni di età. Era stata anche insegnante elementare di Khaleda Zia, poi divenuta primo ministro. A chi le chiedeva come fosse da bambina rispondeva con un sorriso malizioso: “Carina e buona, ma… capiva poco…” Come altre loro consorelle del Kerala, hanno saputo ambientarsi in Bangladesh dall’interno di comunità formate di italiane – in passato – e ora di bengalesi. Hanno espresso doti non comuni di leadership, di impegno, di testimonianza: missionarie convinte e affidabili. Quanto a suor Theonilla, a tutte le altre doti aggiungeva il “tocco” con cui sapeva offrire una tazza di caffè veramente speciale, insieme ad un sorriso buono e tranquillo. Grazie suor Theonilla!
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