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Lieto fine

Dal 2003 – appena ritornato in Bangladesh dopo 19 anni di assenza – fino al 2011 sono stato incaricato di insegnare e accompagnare spiritualmente i giovani del seminario teologico nazionale del Bangladesh, in Dhaka. Mi occupavo anche dei numerosi stranieri abitanti nella zona (Banani), ma spesso si rivolgevano a me anche cristiani bengalesi… senza pastore. Pian piano li conobbi: abitavano nella zona nord di Dhaka, oltre l’aeroporto, nella “città satellite” di Uttora, e non sapevano dove trovare una chiesa per la Messa, un battesimo, un prete per sposarsi. o per chiedere un aiuto. Avevo un bel dire: “Andate alla parrocchia di Tejgaon!” Mi guardavano come parlassi della luna: Tejgaon è lontana, il traffico intensissimo e spesso bloccato, i trasporti costano… insomma, meglio rimandare il battesimo, il matrimonio, la messa… aspettando tempi migliori. Così mi venne in mente di anticipare questi tempi migliori e prendere in affitto un piccolo appartamento a Uttora, Incoraggiato dal Rettore, e silenziosamente, educatamente considerato un donchisciotte da vari colleghi del seminario, misi gli occhi, a Uttora, su un appartamentino, la cui proprietaria, una distinta, attempata signora si chiese: “E’ giusto che io – musulmana – dia in affitto il mio appartamento a cristiani che ne faranno un posto di preghiera?”. La notte le portò consiglio, e decise di darcelo, a patto che promettessimo di pregare per lei. Promisi, e incominciai a trascorrrere qualche ora nell’appartamento due volte al mese, celebrandovi la Messa, facendo nuove conoscenze, interessandomi dei malati. Pian piano la voce si sparse, e la minuscola comunità crebbe, celebrammo feste, insegnammo il catechismo. Per avere qualcuno che facesse da custode diedi una stanza in uso ad una giovanissima coppia di strapelati, con bimbo e senza casa, musulmana lei e cristiano lui, rifiutati dalle rispettive comunità. Divennero famosi per le loro epiche zuffe, ma intanto mettevano su qualche chilo e tenevano pulite le stanze. Poi ci sfrattarono: vendevano la casa per farne un palazzone. Trovammo un altro posto che era come un fungo in una foresta: circondata da incombenti edifici di dieci, quindici piani, era una casetta con un unico appartamento, ma in ottima posizione “strategica”. Diversamente dalla signora scrupolosa, il proprietario, non ebbe dubbi: conosco preti e parroci a Londra e mi fido, so che non mi sfascerete la casa. Fu l’inizio di un “miracolo”: pur di avere noi nella casa in cui sperava di passare la non lontana vecchiaia, per dieci anni non aumentò il prezzo d’affitto neppure di un centesimo! La comunità prendeva in qualche modo forma, con cristiani venuti da tutte le parti del Paese, poveri in canna e ricchi, e anche non cristiani ansiosi di farsi battezzare sperando in qualche buon vantaggio economico, non importa se in moneta o in beni immobili, o lincenza di commercio, e via dicendo. Erano quelli che sprizzavano devozione da tutti i pori, e ancora oggi ogni tanto uno di loro mi telefona: “Padre, ma non mi conosci? Ma vengo sempre nella chiesa di Uttora! Sì, forse sono mancato qualche volta, però… ah, non ci vai più da sette anni? Beh, sai, ero molto occupato, ma tu però aiutami lo stesso…”. Insomma, mi feci un’esperienza, ed ebbi pure una promessa del vescovo di allora: “Bravo, vai avanti ancora un poco, compro un terreno, tempo tre mesi e facciamo una parrocchia”. Il Vescovo morì piamente quattro anni dopo, e la parrocchia non c’è ancora. Il suo successore, quando lasciai il seminario, accolse ben volentieri la notizia che alcuni amici italiani mi avevano promesso di pagare l’affitto finchè necessario, ed erano disposti a continuare anche se non ero più io l’incaricato. Sono rimasti fedeli fino ad oggi! L’incarico pastorale della piccola comunità venne affidato allo staff del seminario, P. Louis se ne prese cura per bene, e io non ci misi più piede. Poi, mentre anche il nuovo vescovo s’affannava invano a cercare un terreno a prezzi abbordabili, Uttora cresceva a dismisura, e cresceva pure la convinzione che “non ce la faremo”, come nei migliori western americani di una volta, “arrivano i nostri!”. I “nostri” furono i Salesiani indiani, che – non si sa come – misero le mani su un bel pezzetto di terra e in poco tempo ci fecero una cappella con l’intento di costruire un seminario per i loro studenti di teologia. Il Vescovo, che in realtà è arcivescovo, e persino cardinale, non si lasciò scappare l’occasione e chiese loro di prendere la responsabilità della piccola comunità “di p. Franco” per farne poi una parrocchia. Ecco perché domenica 25 febbraio alle 17 concelebrai su quel terreno, con il Cardinale e due salesiani, la Messa delle Palme, presente una piccola folla di fedeli, e alle finestre dei palazzi vicini, innumerevoli occhi spalancati e orecchie tese per vedere e sentire “che cosa fanno i cristiani”. Da giugno il signore che vive a Londra potrà riprendere possesso della sua casetta, e io mi rallegro per il “lieto fine” della mia modesta, artigianale iniziativa pastorale, finita in ottime ed esperte mani. E i due sposini che s’azzuffavano? Li ho rivisti volentieri, dopo qualche fatica a riconoscerli. Ora i figli sono due, grandicelli; lei ha voluto ricevere il battesimo, la crisi economica è superata, si sistemeranno altrove senza problemi. “Vi azzuffate ancora?” chiedo a ciascuno, separatamente. La risposta è uguale: “Sì, moltissimo, ma siamo felici!”.

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