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Icona decorativaIcona decorativa16 Dicembre 2020 Franco Cagnasso

Maria

Poco più di trent’anni, credo. La vedo per la prima volta quando viene alla parrocchia per ricevere un piccolo aiuto, distribuito grazie ad una donazione del PIME. Poi mi cerca e mi rintraccia, e la cosa mi dà fastidio. È troppa la gente che sente dire meraviglie di quel padre straniero che aiuta tutti, in qualche modo riesce a farsi dare da qualcuno il mio numero di telefono, e s’aspetta, direi esige, che con questo tutti i problemi saranno risolti… La mando via più volte, dicendo che non posso fare nulla, ma poi riesce ad agganciarmi. Non è simpatica. Porta un velo sulla testa e la maschera antivirus; gli occhi grigi sono un mare di tristezza, smarrimento, paura; fissa a lungo, silenziosa, prima di parlare in modo aspro, che sembra aggressivo. Ha una grave infezione all’orecchio destro, che non ha mai potuto curare, con dolori che non la lasciano dormire, e l’orecchio sinistro è debole. Devo far ripetere più volte ciò che dice, lei non mi capisce, fraintende, si spazientisce… Era incinta del primo figlio, undici anni fa, quando il marito morì in un incidente e si trovò sola con il bambino, i genitori poverissimi, un fratello minore fannullone. Sono cristiani cattolici, vivono a Khulna, credo che appartengano al gruppo dei “rishi”, fuori casta indù, impuri e disprezzati scuoiatori di animali e conciatori di pelli. Giovane vedova affamata, venne con il bambino a Dhaka, trovando lavoro in una fabbrica di abiti; con lo stipendio e tante ore di straordinari manteneva tutti. Poi… ecco la pandemia: la fabbrica chiude, e ora Maria è qui, davanti a me, e disperatamente mi chiede di farla uscire dalla disperazione. Le do qualche cosa. Ritorna, insistente, noiosa; ma alla fine mi convinco che è seria. Vuole una macchina per cucire e quando le chiedo se sa fare la sarta mi risponde irritata: “Certo che lo so fare, ho cucito abiti per tanti anni, e non ho imparato?”. “E il taglio? e tutto il resto?“ “Anche taglio e tutto il resto, so quello che dico”. Mi do dello stupido perché so bene che finirà per confessare che non se la cava, ma prometto di procurarle la macchina e, come sempre in casi del genere, in poco tempo saltano fuori i “corollari”: macchina significa anche ferro da stiro, tavolino, coperta, orlatrice, filo, tessuti in abbondanza, anticipo per trovar posto in un ostello, e medicine per l’orecchio ormai insopportabile. Mi stupisce invece perché, messo insieme l’indispensabile per iniziare, in brevissimo tempo si fa conoscere, e inizia a guadagnare. Ovviamente, con questo si sente autorizzata a chiedere di più, perché non può lasciare genitori, figlio e fratello alla fame, e perché le hanno detto che l’orecchio è in condizioni molto gravi, occorre uno specialista, probabilmente un’operazione. Mi telefona tre, quattro volte al giorno per chiedermi se sto bene, per implorare: non lasciarmi! Però il lavoro si avvia decisamente bene e qualche volta, quando ne parla, sorride un po’, quasi per dirmi: “Pensavi che non sarei stata capace, vero?” Non manca qualche bugia: “sì, le bugie dei poveri” mi spiegò una volta una poveretta che avevo accusato di aver mentito per farsi aiutare. Una notte all’una, mi sveglia con una telefonata, piangendo irrefrenabilmente: mio padre ha avuto un ictus, è paralizzato in ospedale. Parte subito per Khulna; derubata mentre viaggia in autobus, non sa come far dimettere il padre: finché non paga il conto, niente dimissione, e il conto cresce giorno dopo giorno. Ritorna a Dhaka, lavora, paga. Ora le cose per lei andrebbero benino, ma non può sopportare il pensiero del papà affidato alle cure della mamma, anche lei malandata. L’orecchio va un po’ meglio, il lavoro cresce, il ritornello rimane, insistente e angosciato: padre Franco, non lasciarmi, è la prima volta che trovo qualcuno a cui appoggiarmi… Le spiego che mi assenterò per una decina di giorni: vado a Rajshahi alla comunità Snehonir. Mi telefona spesso anche là finché le rispondo irritato: piantala, lo sai che sono via, sto bene, non chiamare tutti i momenti! Due giorni di silenzio, poi di nuovo una chiamata notturna. È Padre Shamir, il giovane assistente della parrocchia di S. Christina, a Dhaka. “P. Franco – mi chiede – conosci una donna che abita a Kollanpur, è di Khulna, e fa la sarta?” “Maria?” “Sì, credo si chiamasse Maria. È partita questa mattina per Khulna, perché il papà si era aggravato. Lo ha visto in ospedale, lo ha fatto portare a casa, e poi… e poi è morta. Un ictus”. Il padrone della stanza in cui viveva, saputa la notizia, subito sostituisce la macchina da cucire e il ferro da stiro, nuovi di zecca, con un’altra macchina arrugginita e fuori uso, e con un ferro da stiro malandato, e fa sparire le stoffe e gli abiti in lavorazione. Ai parenti che si fanno vedere consegna la macchina da cucire vecchia, e chiede due mesi di affitto per permettere di portar via le altre cose che appartenevano a lei, compreso lo scarso mobilio e il materassino su cui dormiva per terra… Loro non pagano, tutto rimane a lui. “Maria, ho scritto questa scheggia per mostrarti che, anche se mi arrabbiavo con te, non ti volevo proprio abbandonare, e per dirti il mio rammarico perché non sono riuscito a farti vincere la paura. Ti ammiravo, e speravo tanto di riuscire a vedere nei tuoi occhi un poco di pace, di speranza. Pensavo alle parole di Gesù: Beati i Poveri, Beati coloro che piangono. Ora ti prego – sì, prego proprio te – di aiutarmi a credere in quelle parole.” Mi hanno detto che è stata sepolta con un abito bianco. Rajshahi, 25 novembre 2020 Aggiunta Ho esitato a lungo se pubblicare o no la scheggia “Maria”, pubblicata subito prima di questa, perché molto, forse troppo emotiva e personale. Ma ho deciso per il sì perché esprime un momento autentico del Bangladesh come lo vedo e lo vivo. Ma poi… sorpresa. Maria non si chiamava Maria, forse non faceva la sarta, forse il furto di cui mi aveva parlato non è mai avvenuto, forse le ricevute che mi ha mostrato e consegnato erano false, certamente il papà non ha avuto un ictus ma sta bene e – pur anziano – ancora lavora, forse è morta veramente: ho visto numerose fotografie della salma nella bara, e c’era pure l’abito bianco che mi ha commosso. Lo so che oggi si possono falsificare le fotografie a piacere, ma la notizia della sua morte non me l’ha data lei (avrei avuto qualche dubbio in più…) e chi mi ha parlato della faccenda non era parte in causa e non aveva interesse a raccontarmi di una finta morte. Mi sono chiesto se dire a Bruno e a Giuliano – i fedelissimi curatori di Banglanews e anche della pubblicazione delle schegge – di non pubblicare questa scheggia; oppure se pubblicarla facendo poi finta di niente, tacendo sull’imbroglio per non fare la figura del… Ma ho scelto di pubblicare e di fare questa aggiunta: anche questo è Bangladesh, anche questa è missione, anche questo sono io. Rimane il rammarico che questa signora non abbia potuto fare l’attrice, rimane la preghiera per lei – che certo non ha vissuto bene la beatitudine annunciata da Gesù, ma spero si sia ora incontrata con la Sua misericordia. Rimane la fatica di discernere, capire, trovare le vie giuste per offrire un aiuto a chi ha davvero bisogno – e anche questa sedicente Maria aveva bisogno di aiuto: un bisogno di aiuto differente che mi dispiace non aver saputo cogliere. Dhaka, 4 dicembre 2020

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