Viaggio – 8
A Dinajpur, Gian Paolo e io siamo affaccendati ciascuno per conto suo. Due giorni e tre notti, durante le quali gusto il fascino del silenzio e dell’aria pulita. Poi, mercoledì 20 gennaio, alle 10 del mattino riprendiamo la via di casa, naturalmente con qualche deviazione.
In meno di tre ore siamo a Dhanjuri, una delle missioni “storiche” del PIME, un “centro” dell’evangelizzazione soprattutto della popolazione Santal. Da Dhanjuri si sono formate e sono ancora in via formazione altre missioni e altri centri minori, e si è sviluppata una vasta opera di assistenza e aiuto agli ammalati di lebbra, che aveva due aspetti: la cura in ospedale, a fianco della missione, e una rete di “cliniche”, punti di appoggio dove personale preparato periodicamente svolgeva opera di informazione e prevenzione della lebbra, faceva le prime diagnosi di “casi” sospetti, controllava chi veniva curato vivendo a casa propria.
Quando arrivai in Bangladesh, nel 1978, il “Dhanjury Leprosy Center” funzionava a pieno ritmo. Una vasta area verde coltivata a orto era come racchiusa da una serie di edifici a uno o due piani con spazi per i degenti, donne e uomini, sala operatoria, laboratorio clinico, laboratorio per fabbricare scarpe ortopediche adatte alle mutilazioni dei pazienti, cappella, cucine, refettori, e tutto ciò che serviva agli ammalati, alle suore del PIME che vi lavoravano, e ai volontari laici stranieri che per alcuni anni diedero il loro servizio a quest’opera.
In quel periodo, a Dhanjuri soffiava aria di novità. Dopo molti anni in cui era stato quasi impossibile mandare nuovi missionari in Pakistan Orientale, quando il Bangladesh divenne indipendente le porte si spalancarono, e i superiori, non sapendo se e quanto sarebbero rimaste aperte, mandarono tutti coloro di cui potevano disporre. I giovani portavano con sé – magari “baldanzosamente”- idee e sogni “post-conciliari”, e c’era da chiedersi come sarebbero stati accolti dal gruppo dei veterani “pre conciliari” che avevano lavorato duramente e in condizioni difficili negli anni precedenti. Non mancarono frizioni e crisi che si verificarono ovunque in quegli anni, e che videro molti abbandoni. Ma tutto sommato il PIME se la cavò… senza troppe ferite. Sono convinto che una parte del merito vada al superiore regionale di allora, p. Enzo Corba, che nella sua stessa persona in qualche modo univa le due tendenze. Come età ed esperienza era del gruppo anziano, come spirito di ricerca e desiderio di rinnovamento, di autenticità, i giovani lo sentivano vicino, solidale. Aveva per ogni persona un grande rispetto, che non si lasciava incrinare da dissensi o scelte differenti. Lui stesso, p. Corba, volle vivere il “nuovo” in un villaggio del sud, partecipando da vicino alla vita della gente, lavorando con loro, pregando in mezzo a loro, cercando di essere punto di convergenza per tutti, nel rispetto delle differenze religiose. Qualcuno scrisse che era un “missionario contadino”, fece pure il “superiore contadino”. Non accontentò tutti, ma rimase in dialogo con tutti. Fra le molte virtù che aveva, fra cui il coraggio, p. Corba aveva anche una… saggia furbizia, che non guastava!
Dhanjuri era quasi un “campo sperimentale” di queste differenze che sarebbero potute diventare divisioni, avendo un parroco, p. Luigi Scuccato, tradizionale nella sua impostazione pastorale e missionaria, ma che accettò in parrocchia giovani – preti e volontari laici – che sembravano poco interessati, anzi critici di ciò che lui faceva o aveva fatto. Desideravano dedicarsi soprattutto ai problemi sociali e di sviluppo, cercavano un orizzonte vasto, non sospetto di “ecclesiocentrismo”, mentre lui si sarebbe occupato di catechesi, e di sacramenti. Ci volle molta pazienza reciproca, e si dovettero affrontare (come dicevo, non solo a Dhanjuri!) anche “crisi” personali. Ma si evitarono rotture e conflitti amari – e credo che, pur nella concitazione di certi momenti (ricordo le animatissime discussioni durante le assemblee del PIME in quegli anni) la nostra presenza missionaria abbia testimoniato una chiesa in ricerca sofferta, ma che non era solo conflitto ideologico – e nemmeno teologico – e cercava di vivere la carità.
P. Gian Paolo non c’era ancora in quegli anni, e mentre ci avviciniamo a Dhanjuri ascolta con pazienza qualche ricordo storico e qualche aneddoto raccontato dal suo passeggero. Gli parlo anche di suor Rosa Sozzi, missionaria dell’Immacolata che era medico, e per qualche anno dedicò tutta se stessa alla cura degli ammalati di lebbra. Quando passavo da Dhanjuri, prendevamo un po’ di tempo per una lunga chiacchierata: cercava di unire la professionalità con la testimonianza, in un certo senso anche per “rimediare” al fatto di non poter offrire – in ambiente islamico – un annuncio diretto del Vangelo che la animava e che l’aveva condotta qui. A fermarla fu un tumore al fegato, di cui era perfettamente consapevole. Mi disse che solo un trapianto avrebbe potuto salvarla, ma subito precisò che aveva sentito troppe cose a proposito di commercio di organi, e che non avrebbe assolutamente preso in considerazione quella possibilità.
Un aneddoto? Suor Rosa mi disse che insisteva molto con i parenti perché stessero vicini ai loro cari ammalati, e qualche mese prima aveva notato con soddisfazione un aumento nel numero visitatori che spesso – essendo Dhanjuri in luogo piuttosto remoto – si fermavano anche uno o due giorni. Ne era soddisfatta, ma poi si accorse che l’insperato aumento delle visite non era dovuto alle sue raccomandazioni, ma alle… carote. Allora erano pressoché sconosciute in Bangladesh, e suor Rosa le aveva fatte seminare nell’orto. Ai degenti piacquero, e si sparse la voce che al lebbrosario c’era qualcosa di buono che nessuno conosceva. Andando a visitare un malato si faceva un’opera buona, si accontentava la dottoressa, e si potevano assaggiare le carote. Le quali ora sono un vegetale molto diffuso in tutto il Bangladesh, al punto che viene venduto per le strade come “rompidigiuno”.
Suor Rosa morì pochi mesi dopo la diagnosi, in Italia, lasciando un grande vuoto.
(continua)
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