Cresce il malumore tra la popolazione locale anche per via del rallentamento dell’economia. E tra le ultime misure adottate fa discutere l’arretramento dell’obbligo scolastico ai dodici anni
La Thailandia si avvicina al secondo anniversario dal colpo di stato incruento del 22 maggio 2014 con due sole certezze. Quella di un potere che cerca di consolidarsi per un tempo prolungato e senza opposizione da una parte e dall’altra una realtà di crescente incertezza economica e sociale che in parte ne è conseguenza e in parte richiederebbe iniziative di rilancio al momento impossibili.
La pacificazione invocata dai militari e fatta propria dalle élite urbane della capitale come ragione del golpe, è ora imposta manu militari, ma è sempre più sotto attacco con i mezzi possibili da parte della società civile e della politica avversa al controllo di generali e aristocrazia sul Paese. Il malumore inizia a serpeggiare tra la popolazione sempre più in difficoltà a far convivere necessità proprie e cieca adesione alle norme imposte, a volte, anche contro le comunità locali.
La nuova costituzione che chi controlla il Paese vorrebbe approvata ad agosto con un referendum popolare, non solo viene avversata per il suo chiaro intento di consentire il controllo militare diretto o indiretto, ma è anche di fatto ignota nei suoi principi alla maggior parte dei thailandesi, chiamati ad approvarla con una pressione crescente. D’altra parte un mancato referendum o la sua bocciatura aprirebbero scenari di tensione ancora più aspri.
Quella thailandese è una situazione a cui si è arrivati finora in sordina, con organizzazioni per i diritti umani e le libertà civili assai attive ma che faticano a avere interlocutori e risposte nel Paese e interesse all’esterno; il tutto nel disinteresse dell’opinione pubblica internazionale, se non per alcuni casi particolarmente efferati e controversi di violenza su cittadini stranieri o di abuso della legge verso blogger e oppositori all’estero.
Bastino a indicare la situazione alcuni esempi che hanno scandito negli ultimi giorni la quotidiana: sequela di ordinanze, iniziative, proclami, proposte a volte smentite dopo solo poche ore o riviste opportunamente davanti a una reazione, per finire poi applicate con il massimo dell’impatto a favore del regime. In buona parte utilizzando uno strumento – il decreto 44 – che dà al capo del governo (e della giunta militare) il potere di decidere d’imperio su qualunque argomento, nello stesso tempo garantendo al governo e ai militari l’intoccabilità attuale e futura per le conseguenze della decisione.
Il 29 marzo, la giunta ha fornito ai militari dal grado di luogotenente il potere di arrestare e di detenere chiunque. Anche il potere di perquisire e requisire abitazioni, uffici e beni. Il giorno successivo, veniva annunciato l’avvio di iniziative di “rieducazione” per gli studenti che esprimessero idee o atteggiamenti in contrasto con la volontà del regime, in questo associandosi alle centinaia di adulti (politici, attivisti, intellettuali…) che da quasi due anni sono finiti, in molti casi più volte, nelle caserme per “sessioni di adattamento” alla volontà della giunta e del governo da essa controllato..
Il 31 marzo, infine, il governo annunciava di volere procedere verso una ridistribuzione degli anni di studio obbligatorio e gratuito: dall’attuale corso dai 6 ai 15 anni di età, alla fascia dai 3 ai 12. Ragione proposta: la volontà di incrementare le capacità intellettuali dei più piccoli a fronte di ristrettezze di bilancio; e solo in futuro – se il bilancio dovesse crescere – tornare al limite dei 15 anni. Un’iniziativa che – più ancora delle precedenti – si presta a una doppia lettura: quella ufficiale e quella dei critici che la vedono come un ulteriore strumento di controllo sulla popolazione. Un modo per privare i già mansueti e poco intellettualmente coinvolti 67 milioni di cittadini del regno di conoscenze utili a svilupparne la capacità critica, ma anche a migliorarne le capacità in un contesto geografico sempre più competitivo e che necessità di sempre maggiore conoscenze, ancor più se non limitate alla propria storia, tradizioni e regole.
L’economia – imbaldanzita quotidianamente dagli annunci ufficiali sovente poi smentiti all’estero – in realtà è perlomeno in stallo nel suo complesso. La previsione di un ulteriore calo del 5 per cento dell’export a marzo (a proseguire un trend ormai prolungato se si esclude un rimbalzo nello scorso febbraio) e la nuova previsione di una crescita non superiore al 3 per cento quest’anno da parte della Banca asiatica per lo sviluppo (Adb), segnalano un malessere economico che si alimenta di calo dei consumi, spinte deflazionistiche, ridotta produzione industriale che risente anche dell’esodo di impianti e iniziative verso Paesi vicini e della scarsità di nuovi investimenti esteri (- 78 per cento lo scorso anno su quello precedente). Incremento del costo della vita e della bolla speculativa sull’edilizia, investimenti in grandi progetti di sviluppo che – prima di concretizzarsi in un futuro reso imprecisato da una serie di fattori, inclusa la corruzione e gli sprechi – dovranno confrontarsi con la scarsità di fondi disponibili e venire a patti con il vicino cinese; sulla carta disponibile e generoso ma le cui contropartite rischiano di essere pesanti non solo finanziariamenti ma anche politicamente. Fino a trasformarsi in un abbraccio che allontanerebbe ancora di più Bangkok dall’Occidente e dalle democrazie dell’Asia.