Prima arresti dopo il rogo di una moschea a Lone Khin. Paradossalmente proprio la relativa democrazia raggiunta dopo la fine formale del controllo militare, ha concesso maggiori spazi alla propaganda dei nazionalisti buddhisti che, collegati a gruppi di interesse connessi con il vecchio regime
Primi arresti in Myanmar di presunti responsabili dell’incendio di una moschea il 1° luglio nel villaggio di Lone Khin, nello Stato Kachin settentrionale. I cinque finora fermati, abitanti dell’area dove si trova il complesso religioso assaltato da una folla armata nonostante la forte presenza di polizia che è rimasta del tutto inerte, sono di fede buddhista, come coloro che avevano assalito a fine giugno un’altra moschea nella regione centrale di Bago.
Gli arresti per le aggressioni contro i musulmani sono assai rari e la notizia del fermo dei cinque – quattro uomini e una donna – è un’eccezione. Come dimostra la mancanza di responsabili individuati per il rogo di Bago. «Posso vedere ogni giorno i responsabili della distruzione camminare davanti a me», ha segnalato il segretario della moschea.
Gli ultimi attacchi sono avvenuti in aree distanti dallo Stato Rakhine, presso il confine con il musulmano Bangladesh e affacciato sul Golfo del Bengala dove si concentra la maggioranza dei musulmani birmani e, in particolare, l’etnia Rohingya, che le autorità non riconoscono tra quelle con diritto di cittadinanza birmana. A dimostrazione che le tensioni vanno estendendosi, con il rischio di creare una frattura insanabile tra i buddhisti – maggioritari nel paese con il 90 per cento della popolazione – e i musulmani (circa il 4 per cento, alla pari con i cristiani). “Preoccupazione notevole” è stata espressa dopo gli ultimi incidenti dal portavoce dell’Ufficio Onu per i Diritti umani Rupert Colville, soprattutto per l’inazione della polizia. “Chiediamo al governo di indagare su questi fatti come pure sulla reazione delle autorità locali… Queste azioni squadriste violente possono alimenare un ciclo di tensioni nel Paese e chiediamo passi immediati per evitare altre manifestazioni di intolleranza religiosa”.
Nonostante le pressioni internazionali alla concessione di pari diritti e cittadinanza per i musulmani nel Paese e nonostante l’impegno delle autorità a cercare una soluzione (a «tutelare» ma non a garantire un riconoscimento per il Rohingya), la situazione resta tesa e i 250mila musulmani che negli ultimi quattro anni si sono raccolti in campi profughi sotto l’assistenza internazionale per sfuggire a discriminazioni e violenze hanno poche prospettive di vedere migliorare la loro situazione.
La relativa democrazia raggiunta nell’ultimo lustro, dopo la fine formale del controllo militare, ha concesso maggiori spazi alla propaganda dei nazionalisti buddhisti che, collegati a gruppi di interesse connessi con il vecchio regime, hanno un’influenza maggiore rispetto alla loro consistenza reale in un Paese che cerca basi stabili per riproporsi da protagonista sulla scena regionale e globale. Il sostegno delle autorità locali o almeno il loro disinteresse verso la sorte della minoranza musulmana, consente una propaganda anti-islamica che ha pochi oppositori oltre a chi ne è vittima e alle organizzazioni internazionali.
Persino la Lega nazionale per la democrazia, partito erede della lunga opposizione democratica e nonviolenta al regime militare che ha controllato il Paese per oltre mezzo secolo, non va oltre dichiarazioni di principio e la volontà di governare un paese multietnico che non veda le divisioni e i conflitti che ancora lo caratterizzano e ne minano lo sviluppo.