In Sri Lanka arranca il processo di pace

A otto anni dalla fine della guerra civile fra i tamil e il governo il processo di riconciliazione ristagna. E la mancanza di concreti sviluppi verso la pacificazione crea frustrazione.
La “frustrazione” dei Tamil srilankesi per la mancanza di concreti sviluppi verso la pacificazione del paese e la riconciliazione è stata riconosciuta nei giorni scorsi dal Consiglio delle Nazioni Unite per i Diritti umani. In una risoluzione approvata alla fine della sua 34ma sessione che si è tenuta nella sede di Ginevra dal 27 febbraio al 24 marzo, il consiglio ha dato al governo di Colombo altri due anni per concretizzare i piani individuati in una risoluzione del 2015. L’organizzazione internazionale ha riconosciuto i progressi fatti finora ma anche sollecitato a una maggiore incisività nell’applicazione delle politiche ufficiali. Sottolineando, ad esempio la sostanziale mancanza di una iniziativa dedicata a far luce sulle tante zone d’ombra di un conflitto che nono solo ha portato ingenti devastazioni e perdite di vite umane tra militari, ribelli e civili, ma che è stato accompagnato da una enorme quantità di abusi dei diritti umani, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni. Che è stato anche pretesto per un controllo dispotico sul paese da parte dell’ex presidente Mahinda Rajapakse, con un ampio ruolo dei suoi congiunti, degli alti gradi delle forze armate e dei servizi di sicurezza. Negati finora anche un tribunale speciale (possibilmente a partecipazione internazionale negata dalle autorità) per investigare i crimini commessi contro decine di migliaia di civili nelle ultime fasi del conflitto e un’ampia riforma del sistema giudiziario e della sicurezza che consenta un reale miglioramento della situazione dei diritti umani. Una situazione che per gli attivisti tamil aggrava la disillusione di questa etnia, la seconda del paese, che a distanza di quasi otto anni dalla sconfitta della sua lotta armata per l’indipendenza, vive ancora situazioni di profonda emarginazione e sottosviluppo. «Sono già trascorsi otto anni e le attese della popolazione sono ancora disattese. Questa estensione dei tempi di soluzione incoraggerà il governo a posticipare la devolution dei poteri, la definizione delle responsabilità e il processo di riconciliazione», ha ricordato all’agenzia UcaNews suor Mebal Rodrigo, che nella città settentrionale di Killinochchi è impegnata a fornire consulenza psicologica alle famiglie vittime del conflitto. La pacificazione non è un’opzione per lo Sri Lanka, data l’eredità della guerra e la profonda frattura che ancora persiste tra maggioranza singhalese buddhista (75 per cento della popolazione) e Tamil, perlopiù di fede induista (il 12 per cento). Per la riconciliazione anche la Chiesa cattolica si è impegnata fortemente, come pure è stato concreto il suo impegno durante gli anni del conflitto per sostenere le necessità delle popolazioni e denunciare violenze e abusi. Abusi negati per lungo tempo a livello ufficiale ma che sono stati ampiamente documentati. Solo negli ultimi giorni del conflitto sarebbero state almeno 40mila le vittime trai civili intrappolati dai combattimenti in aree dichiarate “di sicurezza” dalle forze armate governative. Purtroppo, come segnalato a Uca News da Basil Fernando, direttore dei programmi della Commissione asiatica per i Diritti umani, «il sistema legale è in crisi e, almeno fino a quando il governo procrastinerà una soluzione, la gente continuerà a soffrire e l’illegalità a diffondersi». Le tensioni tra Colombo e le Nazioni Unite su impegni e competenze ha contribuito a allontanare una soluzione ma, ricorda ancora Fernando, «qui non si tratta dell’Onu, ma del nostro paese e della nostra gente».
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