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A Casa di Angela

Per tutti è la Casa degli angeli. Ma è anche molto casa sua, di suor Maria Angela Bertelli, missionaria saveriana che ha vissuto 16 anni negli slum di Bangkok. Con mamme e bambini con gravi disabilità
  «Parte tutto dal cuore delle persone. Quando non si vede l’altro come tuo fratello, con la tua stessa dignità, in quanto anche lui figlio di Dio – perché nero, perché povero, perché disabile… – allora non si salva più nessuno». Suor Maria Angela Bertelli, 59 anni, missionaria saveriana originaria di Carpi, ha lottato per anni contro ogni forma di esclusione e disumanizzazione. Per tenere sempre l’uomo al centro. E perché ciascuno potesse essere guardato come Gesù lo vede. È stato il filo conduttore della sua missione, in posti apparentemente diversissimi, ma sempre segnati da forti ingiustizie e sperequazioni. E con tante storie di persone che spesso sono considerate meno di niente: dai bassifondi di Harlem a New York agli slum di Bangkok. Passando per il conflitto civile in Sierra Leone, uno dei più cruenti e feroci, durante il quale è stata sequestrata per due mesi con altre sei consorelle. «Quell’esperienza mi ha fatto sperimentare cos’è la negazione dell’umano – ricorda suor Angela -. Tutto era stato distrutto. Violenza pura e incarnata. Demoniaca. Mi chiedevo come l’uomo potesse concepire una cosa del genere. Un male così grande da non sapere neppure come combatterlo. Restava solo la preghiera». La missione agli “estremi confini” – in quegli anni bui della guerra civile e in quei giorni tragici in cui la vita sua e delle sue consorelle era appesa a un filo – suor Angela la rilegge non più come fatto geografico: «La missione è là dove il cuore dell’uomo è veramente distrutto, ai confini dell’umano». Poi, però, ricorda anche alcuni gesti di carità da parte di quei ragazzini-ribelli, vittime e carnefici al tempo stesso. Ricorda la richiesta di una preghiera, un’attenzione nei loro confronti: «Vedevi che in fondo c’era ancora un barlume di bene». E poi le donne, in Sierra Leone come in Thailandia – la nuova terra di missione dove mai avrebbe immaginato di essere destinata -, le donne come baluardi di pazienza e di resistenza, di impegno e di coraggio. È con loro che ha ricominciato la sua nuova vita missionaria, in un altro continente, in mezzo ad altre forme di degrado: quelle degli sconfinati slum di Bangkok, dove ha vissuto per 16 anni. Sono oltre duemila, con una popolazione sterminata che vive in baracche senza servizi e infrastrutture. Un degrado materiale, ma anche spirituale, di valori e di umanità. Per questo, anche qui – dopo aver percorso in lungo e in largo questi luoghi di miseria e abbandono – suor Angela ha deciso di ricominciare da una casa e da una famiglia. «Sin dall’inizio – racconta suor Angela, che è rientrata in Italia per un servizio alle sue consorelle anziane e malate – la Casa degli angeli di Bangkok è stata pensata in uno spirito di missionarietà: doveva essere un luogo in cui, attraverso un servizio di carità, si potesse vedere e far vedere i nostri ospiti in modo diverso». Aperta nel 2008, la Casa degli angeli ha cominciato ad accogliere mamme con bambini portatori di gravi disabilità. «Una grande sofferenza – testimonia suor Angela – non solo per la malattia e l’handicap che queste mamme facevano fatica a gestire, ma anche per il forte stigma che pesava su di loro». La disabilità, infatti, in un contesto buddhista in cui tutto è determinato dal kharma, è percepita e vissuta come una maledizione o una punizione per qualcosa di male che è stato commesso nella vita precedente. Dalla madre o dal bambino stesso. «Ecco perché con queste mamme cercavamo ogni giorno di ritornare alla nostra “base” comune – racconta suor Angela -. Tutti i pomeriggi leggevamo insieme un brano del Vangelo, non perché si convertissero, ma perché imparassero a vedere se stesse e i loro figli come creati da Dio, voluti e amati da Lui. Cercavamo di rifondare la dignità su basi più universali e di cambiare il modo di concepire le cose, ritornando sempre al desiderio di Dio nella creazione. Perché non c’è ragio-ne – né religiosa, né sociologica né tanto meno monetaria – che possa giustificare diversità ed esclusione». Questo contatto quotidiano con il Vangelo nella libertà di ciascuno è diventato un punto di riferimento alla Casa degli angeli. Che ha portato molti frutti. «Cinque di queste donne hanno desiderato chiedere il battesimo e sono state inserite nei percorsi della parrocchia dove abbiamo sempre collaborato con i missionari del Pime, in particolare padre Adriano Pelosin e padre Raffaele Manenti, che ha seguito e accompagnato sin dall’inizio la Casa degli angeli. «Con padre Adriano ho cominciato a percorrere in lungo e in largo gli slum di Bangkok – continua suor Angela -. È lui che mi ha introdotto in questo mondo che è fatto non solo di povertà materiale, ma anche di tanta miseria umana. La disgregazione familiare è un vero dramma. Anche se, pure nei contesti più degradati, si può trovare tanta umanità. Ed è proprio da qui che si può provare a costruire il bene». Lei ha ricominciato dalle situazioni più disagiate, quelle delle mamme – quasi sempre sole – e dei bambini con disabilità. Alcuni di loro sono orfani di entrambi i genitori. La maggior parte è stata abbandonata dai padri, uomini spesso ubriachi, violenti, irresponsabili. «A volte anche le donne “sbandano” – dice suor Ange-la – ma sono quasi sempre loro a rappresentare il punto fermo attorno a cui si coagula la società». La Casa ospita attualmente una quindicina di bambini, di cui sei orfani sia di padre che di madre. «Li abbiamo trovati quasi per caso, a volte erano soli con un nonno o abbandonati a loro stessi. Alcuni ce li hanno portati. Qualcuno aveva la mamma, due o tre anche il papà, che però non si prendeva cura di loro. In un paio di casi siamo riusciti a favorire la riconciliazione all’interno della coppia». Tutte le donne vivevano situazioni pesanti di crisi familiare: spesso erano state rigettate dalla famiglia di origine o abbandonate dal marito: «Le mamme, da sole, hanno grandi difficoltà a seguire il bambino e a mantenersi. Così sono tentate di lasciare i bambini in istituti che ne accolgono anche 500 o 600 in condizioni molto precarie». La Casa degli angeli si prende cura di questi bambini e aiuta le mamme a fare lo stesso nel modo più appropriato. Non è facile, perché molti hanno disabilità gravi e si ammalano molto facilmente. «Per certi versi occorre lavorare più con le mamme che con i bambini – spiega suor Angela -. Ma i risultati si vedono. Un po’ alla volta queste donne sono diventate mamme attente e piccole infermiere. Hanno imparato i rudimenti della fisioterapia e a curare i loro figli, stabilizzando la situazione sanitaria ed evitando di correre continuamente in ospedale». Ma un’altra grande questione è il lavoro: «Abbiamo affidato loro alcuni incarichi in casa e per questo paghiamo un piccolo stipendio. È un modo per riconoscere la loro dignità e renderle minimamente indipendenti». Al contempo, è stato fatto un grande lavoro anche per sensibilizzare i cristiani stessi all’accoglienza e alla solidarietà. Pure questo non è stato facile. «Persino tra i cristiani – sostiene suor Angela – lo spirito di carità non è necessariamente diffuso. Di fondo, c’è un grande fatalismo. Chi sta bene al massimo fa un’offerta, ma per averne un merito. È difficile riconoscere che una persona povera o in difficoltà abbia la mia stessa dignità o che possa rapportarmi con lui da fratello a fratello». Per questo è stato importante cercare pazientemente di mettere in contatto la realtà dei cristiani di ceto medio-alto che frequentano la parrocchia con quella dei bambini disabili e delle loro madri che vengono dalle baraccopoli. Ci sono voluti anni prima che fossero accettati e ci si avvicinasse a loro con uno spirito di amicizia. Ma questo percorso è servito anche ai cristiani per imparare a non escludere». Anche la presenza di suor Angela o degli altri missionari spesso non è capita. «Molti mi chiedevano: “Perché lo fai?”. “Per un Padre buono di cui anche tu sei figlio”. Ma l’annuncio a parole non è capito – dice la religiosa -. Occorre mostrare Dio che opera attraverso le persone. I gesti di carità, concreti e disinteressati, infatti, riescono a penetrare più a fondo nell’animo umano. Specialmente le mamme, con cui ci si relaziona nella quotidianità, riescono, un passo dopo l’altro, a vederti quasi come una madre, quella che magari non hanno mai avuto. E anche per me tornare in Italia è stato un po’ come separarmi dalla mia famiglia».

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