Due cugini quindicenni mi hanno tenuto in piedi come prete e missionario. Mi rimane ora un profondo rispetto per quelle pratiche religiose che però non bastano e volentieri assecondo i gesti di Sokneng e Sopha che spingono oltre
«Che tu possa tenere strette nella mente
le orazioni quotidiane, i vespri e le memorie.
Che in ogni spazio del tuo cuore siano concubini
i misteri dei rosari e le canzoni, di quando
fuori tra le erbe a seccare cantavi…» (1)
Anche qui in Cambogia, come ovunque, vi sono tradizioni popolari, riti pseudo-religiosi che resistono all’avanzata della modernità, cozzano contro le teorie pulite delle religioni ufficiali, e aiutano la gente comune a gestire episodi della vita altrimenti oscuri e minacciosi.
Alcuni giorni fa, dopo cena, mi hanno chiamato al capezzale di un nostro alunno. In preda ad una crisi di nervi, forse non del tutto cosciente, chiedeva di me, pronunciava il mio nome. Salito in casa, il ragazzo era disteso ed io mi sono seduto al suo fianco. Sopha, così si chiama, aveva gli occhi chiusi, accusava un forte dolore alla testa, nella parte frontale, faticava a riconoscere i presenti e a capire dove si trovasse. Agitava le mani e le gambe, come a voler frugare nell’aria e correre altrove. A fatica lo si tratteneva. Cercavo di chiamarlo per nome, di parlargli per fargli sentire la mia voce. Negli ultimi mesi le crisi sono state frequenti e preoccupanti, spesso accompagnate da fenomeni di autolesionismo. Attendiamo ora l’esito di alcuni esami clinici ma, dai primi accertamenti, il problema sembra avere implicazioni psichiatriche.
Prima del mio arrivo in casa alcune donne anziane si erano già radunate per compiere uno di questi riti pseudo/religiosi. Li chiamo così non per disprezzo ma perché non avrebbero alcun legame nemmeno con il Buddismo che qui è maggioritario. I genitori di Sopha hanno ricevuto il battesimo due anni fa mentre lui non ancora. Sovente in questi casi riaffiorano antiche abitudini, i vicini impongono certi riti ai quali non ci si può sottrarre. Non dubito della fede cattolica dei genitori di Sopha, ma non posso nemmeno cancellare il loro passato. Ci vuole tempo e presenza, diversamente è meglio il silenzio.
Seduto al capezzale di Sopha mi limitavo a parlargli. Con me c’era anche Sokneng, suo cugino, tanto lento negli studi quanto dotato di una sorprendente intelligenza empatica. Ebbene, Sokneng, che pur avendo solo quindici anni già conosce questi riti, cercava di proteggermi con il suo sguardo. Mi guardava come a dire “padre non preoccuparti di quello che fanno quelle signore anziane, noi siamo qui per altro”. Queste considerazioni mi sono chiare ora, con il senno di poi, perché in quel momento ero imbarazzato dal rito in corso. Tutto smentiva la mia fede cattolica e mi sentivo messo da parte da una tradizione radicata e allo stesso tempo a fior di pelle, in grado di soccorrere questa gente nel panico meglio di me! Ebbene, nel mezzo di quei riti, Sokneng ha estratto dalla sua tasca una piccola croce, uno spago, e ha legato questa improvvisata catenella al collo di Sopha. Mentre le signore anziane invocavano gli spiriti degli antenati defunti e mentre Sopha, allucinato, mi diceva di vedere uomini sopraggiungere dal retro della casa, Sokneng ha estratto la sua piccola croce e l’ha appesa al collo del cugino che a sua volta ha incominciato a portarsela alla fronte, forse per lenire il dolore. Alla domanda della mamma “Sopha mi riconosci”, rispondeva di conoscere solo Gesù!
Poco dopo le anziane signore hanno riferito al papà di Sopha che il figlio stava male perché gli spiriti evocati si erano detti indispettiti dal fatto che tempo fa lui non avesse partecipato al matrimonio della figlia di un suo fratellastro, e quindi occorreva un’offerta riparatrice.
Una simile ritualità ha il vantaggio di indicare il da-farsi immediato, esorcizza la paura e dà una spiegazione più o meno sensata a fatti misteriosi, tanto più in contesti rurali lontani dal razionalismo, peraltro vuoto, delle città. Con questi pensieri, conservando il rispetto e il silenzio, salutando i presenti, mi sono allontanato per tornare a casa.
Da quel momento Sopha ha incominciato a chiedere di essere portato nella nostra cappella al di là della strada. Indicava insistentemente la direzione da prendere per andare al di là… forse anche al di là dei pensieri e delle cose che aveva attorno.
Di fatto, me lo sono visto arrivare poco dopo averlo lasciato. Siamo entrati in cappella accompagnati da alcuni cristiani, abbiamo recitato una decina del rosario e cantato alcuni salmi di affidamento, gli ho asperso la fronte con acqua benedetta e abbiamo concluso con un inno alla Madonna. Sopha, il papà e Sokneng hanno voluto dormire in cappella fino all’indomani.
Questi due cugini quindicenni mi hanno tenuto in piedi come prete e missionario. Mi rimane ora un profondo rispetto per quelle pratiche religiose che però non bastano e volentieri assecondo i gesti di Sokneng e Sopha che spingono oltre. Sento un grande desiderio di tenermi strette nella mente le orazioni quotidiane, i vespri e le memorie… perché in ogni spazio del mio cuore, dei cuori Sokneng e Sopha, siano concubini i misteri dei rosari e le canzoni… Dio non usa le minacce dei vivi o dei morti, usa solo la Sua misericordia. La fede è qualcosa di molto semplice che preme da dentro, forse anche attraverso la follia, e ci porta al di là della strada…
- R. DAPUNT, Le beatitudini della malattia, Torino 2013, 50. Che bel modo ha la poetessa, nel parlare della fede della mamma, di unire orazione e passione del cuore.