Lo sostiene Loretta Napoleoni, che abbiamo intervistato in occasione dell’uscita del suo libro sulla Corea del Nord e sul suo giovane leader, protagonista di un duello sul nucleare con Donald Trump.
Un “regime depravato, spregiudicato e crudele”: questa è l’ultima esternazione di Donald Trump sulla Corea del Nord, al discorso sullo stato dell’Unione. Gli scambi di insulti fra il giovane erede della dinastia dei Kim e il presidente americano sono da tempo all’ordine del giorno. Trump l’ha definito “little rocket man”, un uomo con un piccolo razzo, rifendendosi ai loro contrasti sul nucleare; Kim ha replicato che è “uno statunitense rimbambito e mentalmente disturbato”.
Archiviata la Guerra Fredda e tramontati i regimi comunisti, la rivalità fra il gigante americano e la piccola Corea del Nord a molti sembra incomprensibile. Fa davvero così paura uno piccolo stato asiatico, quando il mondo ha da affrontare pericoli maggiori, come il terrorismo di matrice islamica e gli effetti dei nuovi scenari economici che stanno modificando – e non sempre in meglio – la vita di milioni di persone?
Loretta Napoleoni, economista e scrittrice, consulente di governi e organizzazioni internazionali, a lungo collaboratrice anche di Mondo e Missione, ha dedicato al dittatore nordcoreano un libro appena uscito, intitolato Kim Jong-un il nemico necessario – Corea del Nord 2018 (Rizzoli). L’autrice, partendo dalla Storia e dalle vicende che hanno portato al potere il nonno dell’attuale leader, il padre fondatore della Corea del Nord Kim Il-sung, cerca di spiegare cosa si nasconde dietro a questo Paese misterioso e impenetrabile, apparentemente un fossile di un’ideologia ovunque scomparsa. In questo saggio di piacevole lettura, Napoleoni sfata alcuni stereotipi e soprattutto ci presenta l’ultimo dei Kim come un leader intelligente e capace di stare al passo con i tempi. E ci fa capire come grazie allo juche, il credo dello stato nordcoreano elaborato come un’alternativa al comunismo e al capitalismo, questa “monarchia ereditaria” sia riuscita a restare in sella anche dopo la scomparsa di uno sponsor come l’Urss, o l’evoluzione di un altro sostenitore, la Cina.
Perché questo titolo, il nemico necessario?
«Dal 1989 in poi, la frenesia occidentale di esportare ovunque la democrazia e il libero mercato come unico modello possibile e funzionante ha prodotto risultati scarsi. Guardiamo all’Iraq e all’Afghanistan: abbiamo portato la democrazia, ma è fiorito anche il terrorismo. La Corea del Nord è estranea a questo processo. Continuiamo a considerare questo Paese in modo erroneo: crediamo che sia filosovietico, comunista e retto da un dittatore spietato. E ci consoliamo pensando che a Bagdad, in fondo, non va così male come a Pyongyang, paradigma del male assoluto».
Secondo lei, in che modo il regime nordcoreano è diverso dagli altri regimi comunisti?
«La Corea del Nord è soprattutto un Paese nazionalista, dove esiste ancora il concetto di casta e l’idea di purezza della razza è centrale. L’ideologia juche sancisce la superiorità dei nordcoreani; è come una religione stile Scientology, non priva di contraddizioni al suo interno, che però hanno garantito flessibilità al sistema. Il comunismo sovietico o cinese erano più rigidi, perché avevano una dottrina economica alla loro base. Al contrario, in Corea del Nord l’ideologia juche ha al centro la fede cieca nel fondatore, una sorta di dio in terra, Kim Il-sung, creatore del Paese e della nazione e leader eterno. Proprio perché è così complessa da comprendere, la Corea del Nord è un nemico ideale, perché più diversa di così dal resto del mondo è impossibile. È una monarchia basata sul sangue: la successione è ereditaria e non si fonda su un processo politico, come avveniva in Urss e come succede in Cina».
Nei confronti di Kim Jong-un, c’è più paura o più venerazione?
«A mio giudizio, venerazione. Ai tempi del padre, Kim Jong-il, la distanza fra il potere assoluto e il popolo era enorme. Il capo era lontano dalla gente anche perché era balbuziente e non amava parlare in pubblico. Kim Jong-un, invece, è un millennial: si presenta come un leader moderno, ama stare in mezzo al popolo, si mostra accompagnato dalla moglie per inaugurare asili e parchi di divertimento. È un dittatore assoluto, ma proietta l’immagine dell’amico. È intelligente e sa comunicare. Conosce l’importanza della figura del nonno e cerca di imitarlo, anche fisicamente. Il taglio di capelli, la camminata, i vestiti, i chili in più che gli conferiscono un fisico da cinquantenne: sono dettagli studiati, per assomigliare a lui».
La rivalità fra Kim e Trump è legata al tema del nucleare. Per i nordcoreani, possedere la bomba è essenziale per difendersi dai nemici più accerrimi, la Corea del Sud e gli Usa. Rischiamo davvero che Kim possa premere il bottone e far scoppiare una guerra?
«Non credo che lo farà per primo: potrebbe compiere questa mossa solo in caso di attacco. Il nucleare è un deterrente. Anche agli Usa non conviene attaccare: innescherebbero un conflitto, senza risolvere il problema. Gli scambi di battute e le provocazioni fra Trump e Kim sono solo propaganda. Le parole di Trump fanno comodo anche a Kim. Sono quindi ottimista: anche se una guerra nucleare è sempre possibile, la vedo come un’eventualità remota».
Come giudica il riavvicinamento fra Kim e Moon Jae-in, l’attuale presidente sudcoreano che ha origini nordcoreane?
«Mi sembra positivo. Le Olimpiadi invernali in Corea del Sud, dove gli atleti di due Paesi ancora ufficialmente in guerra gareggeranno insieme, rappresentano un’opportunità unica, l’inizio di una possibile pacificazione, che va sostenuta. Moon Jae-in è il presidente giusto per una trattativa di pace. Ma non credo che bastino le volontà rispettive di Kim e di Moon. A causa della sua posizione geopolitica, nel corso della Storia il destino della Corea è sempre stato deciso dagli altri. Anche ora, è necessario capire quali saranno le reazioni degli Stati Uniti, della Russia, della Cina e del Giappone. In questo momento, è tutto molto fluido. Bisognerà attendere cosa accadrà dopo le Olimpiadi».