La denuncia dell’autrice del best-seller «Il dio delle piccole cose» contro la legge anti-conversione dell’Uttar Pradesh: «Se Madre Teresa oggi fosse viva a causa dei provvedimenti voluti dagli estremisti indù si troverebbe in carcere»
«Se Madre Teresa fosse viva, con la legge anti-conversione dell’Uttar Pradesh, oggi si troverebbe sicuramente in carcere. La mia stima è una condanna a dieci anni più un debito a vita per la quantità di persone che ha convertito al cristianesimo. Ma questa potrebbe diventare la sorte di ogni sacerdote cristiano che lavora tra i poveri in India».
A denunciarlo è la scrittrice Arundhati Roy, nota al grande pubblico per il best-seller «Il dio delle piccole e cose» e molto attiva in India per la difesa dei diritti umani. Lo ha fatto intervenendo all’Elgar Parashad, un evento che a Pune commemora una storica battaglia del 1818 che è considerata un simbolo di emancipazione dai dalit, i fuori casta. Proprio la celebrazione del bicentenario di questo evento – avvenuto due anni fa alla presenza di 30.000 persone – era stato seguito da violenti scontri. Ed è in base a questo precedente che i sedici attivisti per i diritti dei dalit e dei tribali che avevano promosso la manifestazione del 2018, tra cui anche il gesuita Stan Swami, si trovano in carcere da quasi quattro mesi con l’accusa di terrorismo.
Chiamata a tenere il discorso principale alla manifestazione Arundhati Roy ha puntato il dito contro il fanatismo degli estremisti indù, che prende di mira proprio chi si prende cura di dalit e tribali, le comunità tuttora più svantaggiate all’interno della società indiana. Facendo riferimento ai nuovi provvedimenti approvati nell’Uttar Pradesh che con la scusa di prevenire le «conversioni forzate» di fatto rendono impossibile l’assistenza ai poveri, la scrittrice ha sostenuto che oltre a Madre Teresa oggi colpirebbero anche il Mahatma Phule e Babasaheb Ambedkar, due figure popolarissime in India proprio per le loro battaglie contro l’ingiustizia del sistema delle caste rispettivamente nel XIX e nel XX secolo.
«Gran parte dei milioni di sikh, musulmani, cristiani e buddhisti che formano la popolazione del nostro subcontinente – ha continuato Arundhati Roy – sono una testimonianza di quanto le conversioni di massa siano parte della nostra storia. Ma il rapido deterioramento della popolazione indu ha fatto crescere l’ansia tra le caste privilegiate e ha galvanizzato la politica di ciò che conosciamo come hindutva.
Le uniche conversioni di massa – ha concluso – oggi sono quelle che i nazionalisti indù chiamano il ghar wapsi (il “ritorno a casa”), cioè il preteso “ritorno” all’induismo di popolazioni che hanno sempre vissuto nelle foreste. Non prima però di essere sottoposti a un shuddhi (una cerimonia di purificazione). Autorizzando questo finto “ritorno” le leggi anti-conversione perpetuano e legalizzano il mito secondo cui l’induismo sarebbe un’antica religione autoctona, che invece usurpa le religioni di centinaia di tribù indigene del subcontinente».