Il 16 dicembre 1971 la vittoria della guerra contro il Pakistan decretò l’indipendenza del Paese. Una nascita burrascosa e segnata da gravi violenze la cui eredità pesa ancora oggi, come raccontano vari testimoni
La figura imponente di Sheikh Mujibur Rahman campeggia in mezzo a una rotonda nel centro di Dacca, con lo sguardo rivolto al futuro brillante della sua patria. Il “padre” del Bangladesh è da sempre un volto familiare per i cittadini del grande Paese asiatico – ritratto su murales come sui libri di scuola – ma quest’anno, che marca il cinquantesimo anniversario dell’indipendenza, le occasioni per celebrarlo si sono moltiplicate. Certo la pandemia, con le chiusure forzate e fasi di grave emergenza sanitaria, ha inferto un duro colpo al clima di festa che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto caratterizzare la ricorrenza. Eppure non sono mancate né le iniziative simboliche – come la distribuzione di oltre centomila abitazioni a famiglie povere o la piantumazione di un milione di alberi – né le polemiche e gli scoppi di violenza in occasione di eventi controversi, come la visita del primo ministro indiano Modi a marzo, mese dedicato ai festeggiamenti in ricordo della nascita del padre della patria e della sua dichiarazione d’indipendenza.
In Bangladesh, infatti, la storia iniziata mezzo secolo fa con la vittoria, il 16 dicembre 1971, della sanguinosa guerra per separarsi dal Pakistan costata tre milioni di vittime, non ha mai smesso di tormentare la politica e la vita sociale del Paese.
Quest’era turbolenta si aprì, in realtà, al tempo del crollo dell’impero coloniale britannico, quando Islamabad ottenne nei trattati del ’47 con gli inglesi il vasto territorio allora noto come Bengala Orientale e che divenne il Pakistan Orientale. Il tutto secondo la regola chiave della partition: unire popoli, anche diversi culturalmente e lontani geograficamente, in nome della comune fede, in questo caso l’islam. Il che significò non solo far governare la capitale bengalese Dacca da migliaia di chilometri di distanza (perché tra Pakistan Occidentale e Orientale c’era l’India…) ma anche spianare la strada a discriminazioni culturali e pesanti diseguaglianze economiche tra le due parti del nuovo Stato.
Il risentimento covato per oltre un ventennio contro l’establishment di Islamabad, che intendeva persino sostituire la lingua bengalese con l’urdu, scoppiò nel marzo di cinquant’anni fa con una rivolta sostenuta dall’India, determinata a proteggere i 18 milioni di cittadini indù. Ma ad accanirsi sui seguaci del carismatico intellettuale e stratega Mujibur Rahman, fondatore dell’Awami League e promotore della ribellione, a fianco dei soldati pachistani c’erano anche gruppi fondamentalisti islamici locali, come Jamaat-e-Islami.
Questa divisione fatale avrebbe caratterizzato i decenni post indipendenza, tra colpi di Stato e violenze: l’uccisione di Mujib e di gran parte della sua famiglia nel ’75 fu solo il primo e il più cruento di una lunga serie di disordini su cui il Paese non è ancora riuscito a voltare pagina. E non solo perché i protagonisti – anzi le protagoniste – dell’attuale scena politica sono le eredi dirette di quella storia: la premier Sheikh Hasina, al suo terzo mandato, è la figlia dello stesso fondatore dell’Awami League che lei oggi guida, mentre la leader del Partito nazionalista bengalese (Bnp) all’opposizione, Khaleda Zia, è la moglie di quel Ziaur Rahman che aveva governato il Bangladesh con il pugno di ferro – e il sostegno dei fondamentalisti islamici – dal ’76 fino al suo assassinio nell’81.
Le ondate di proteste popolari che periodicamente infiammano le piazze, come il movimento laico Shahbag divampato nel 2013, ma anche gli attacchi a blogger e intellettuali liberali e gli attentati a matrice islamista come quello che nel luglio 2016 uccise in un locale di Dacca venti persone (tra cui nove italiani), affondano le radici in quella storia. Lo stesso agguato ai danni del missionario del Pime padre Piero Parolari, aggredito e ferito gravemente nel 2015 a Dinajpur, si inquadra in un clima teso che la rapida crescita economica non riesce a placare.
«Le lacerazioni che hanno caratterizzato il Paese in questi cinquant’anni non sono ancora state guarite, nonostante i richiami della leadership alla riconciliazione nazionale», spiega padre Franco Cagnasso, giunto in Bangladesh per la prima volta nel 1978 e attento osservatore delle dinamiche di questa società così complessa. «Il movimento che chiedeva la pena capitale per i responsabili dei crimini di guerra compiuti nel 1971 è stato attaccato dal Bnp con motivazioni religiose e ha fatto emergere il potere enorme di Hefajat-e-Islam, un gruppo religioso fondamentalista nato nelle madrasse pagate dall’estero», spiega padre Cagnasso.
«Dopo quella dimostrazione di forza, la policy del governo è stata fare alcune concessioni a questi gruppi islamisti, per rabbonirli: per esempio sono state apportate delle modifiche ai testi scolastici eliminando tutti i riferimenti positivi ai non musulmani, sono state bloccate alcune leggi a favore della parità con le donne e si è perfino accettato di riconoscere i crediti scolastici forniti da scuole e università religiose dai curricola controversi. E sebbene di recente il governo sia intervenuto con decisione per sostituire i vertici di Hefajat-e-Islam, è evidente che l’equilibrio politico e sociale è molto precario».
In questo contesto, la situazione delle minoranze non è semplice: «Sebbene non si possano certo fare parallelismi con Paesi in cui vige una versione rigorosa della legge islamica e per quanto in molte regioni si conviva abbastanza serenamente, l’introduzione negli anni Settanta dell’islam come religione di Stato crea danni ancora oggi, in termini di mancanza di libertà e forme di discriminazione».
Gli assalti contro cittadini indù dello scorso ottobre durante le festività del Durga Puja e costati la vita a sette persone (mentre centinaia di case sono state bruciate) non rappresentano purtroppo un’eccezione: «Negli ultimi nove anni i casi di attacchi alle minoranze – indù, buddhisti, tribali… – sono stati ben seimila», spiega il missionario. «Spesso si usa il pretesto di false offese all’islam, magari pubblicate sul web, per accanirsi contro il presunto “blasfemo” e poi sottrargli terreni, come capita di frequente ai danni dei tribali, bestiame, beni… Poi è vero che contro gli indù c’è anche un pregiudizio politico-culturale: non a caso dall’indipendenza a oggi questo gruppo è calato dal 29 a meno del 10% della popolazione». Per quanto riguarda i cristiani, invece, «mentre quelli di etnia bengalese possono stare abbastanza tranquilli, i tribali subiscono spesso forme di razzismo. Il movimento congiunto di indù, buddhisti e cristiani che da tempo chiede un ministero ad hoc per le minoranze non ha per ora ottenuto risultati».
Se le tensioni tra laici ed esponenti di un islam conservatore e radicale non sono nuove, rinnovata preoccupazione è stata sollevata dall’ascesa al potere dei talebani in Afghanistan ad agosto. Secondo l’esperto di radicalizzazione della Western Sydney University, Mubashar Hasan, i gruppi militanti formatisi in Bangladesh negli anni Novanta avevano profondi legami con i sedicenti “studenti coranici” afghani, che avevano sostenuto nella guerra contro l’occupazione sovietica. Shafqat Munir, a capo del Bangladesh Centre for Terrorism Research di Dacca, sottolinea che «organizzazioni come Harkat-ul-Jihad-al Islami Bangladesh (Huji-B) e Jamaat-ul Mujahideen Bangladesh (Jmb) erano guidate da miliziani rientrati proprio dall’Afghanistan, la cui esperienza di combattimento sul campo unita all’indottrinamento ideologico radicale li aveva incoraggiati a riproporre un modello simile in patria». Si comprendono quindi i timori di Shahriar Kabir, presidente del Comitato Nirmul, storico movimento di protesta nato per chiedere il processo dei criminali di guerra, che alla luce dei recenti sviluppi internazionali ha commentato: «È allarmante vedere sui social media la gioia di alcuni musulmani per la riconquista di Kabul».
Un’altra componente della società bangladese, tuttavia, preme per smarcarsi una volta per tutte dai vecchi schemi del passato e per plasmare un Paese «liberale, pluralista e davvero democratico». Anupam Debashis Roy è una testimonianza vivente di questa ondata di rinnovamento che cerca di farsi strada nonostante un clima decisamente poco propenso alla libertà di espressione. Nato nel 1997 a Syedpur in una famiglia indù, appena sedicenne Anupam, sulla scia delle manifestazioni popolari andate in scena nella piazza Shahbag di Dacca, decise di darsi all’attivismo in prima persona. I suoi video satirici pubblicati sul web in cui affrontava apertamente alcuni temi scottanti, come le turbolente relazioni con il grande vicino indiano, divennero rapidamente virali. In questi anni Roy, che nel 2017 ha creato una piattaforma di mobilitazione civile chiamata Muktiforum e l’anno scorso ha scritto un libro dedicato alle strategie per il cambiamento politico, è diventato molto noto nel Paese.
«La mia generazione è cresciuta respirando una narrazione polarizzata della guerra di liberazione, che oppone secolaristi e islamisti. Ma noi vogliamo una “seconda guerra di liberazione”, che ci affranchi dall’autoritarismo e dalla corruzione della classe dirigente e ci garantisca giustizia sociale e libertà di espressione», afferma l’attivista, le cui prese di posizione gli sono costate il posto di lavoro come giornalista al quotidiano Dhaka Tribune. Il suo Muktiforum, la cui pagina Facebook ha quasi 75mila follower, riunisce giovani scrittori, intellettuali e militanti che vogliono proporre una “terza via” nello scenario politico del Paese.
«In Bangladesh negli ultimi anni gli studenti hanno dimostrato una forte propensione a mobilitarsi, come dimostrano la protesta universitaria del 2018 per la riforma del sistema di quote nel servizio pubblico e quella dei ragazzi delle superiori contro la mancanza di sicurezza nelle strade. Purtroppo i vecchi partiti politici cercano ogni volta di infiltrarsi in queste mobilitazioni per manipolarle, mentre il partito di governo, anche attraverso la sua violenta ala giovanile, trova sempre il modo per spazzare via i manifestanti. Ma la volontà di cambiamento è diffusa e questo mi rende fiducioso».
1971, Voci dalla tragedia
Mondo e Missione seguì da vicino i rivolgimenti che, all’inizio degli anni Settanta, portarono alla nascita del Bangladesh indipendente. Innumerevoli le testimonianze di missionari presenti nel Paese asiatico, come quella di padre Angelo Rusconi in una lettera scritta dal distretto di Borni nel settembre 1971 e di cui riportiamo uno stralcio:
«Era stato commovente vedere queste masse di milioni di uomini, divisi e discordi per tanti fattori sociali e religiosi, prendere d’un tratto coscienza di essere un popolo, cantare la loro Pasqua nazionale, con uno dei grandi poeti bengalesi: “Bengala dorato io ti amo”. Quando, il 26 marzo, è incominciata la brutale repressione, si sono trovati ad opporsi con semplici bastoni ad un esercito moderno, armato di tutto punto! Sono stati schiacciati e ne è seguita una carneficina pazza, cieca, crudele. L’università di Dacca diventa un cimitero. “Ho visto io stesso le fosse comuni con i corpi degli studenti e dei professori ancora mezzo insepolti”, mi ha testimoniato il padre Giulio Schiavi, mio confratello. A Jessore, il missionario saveriano padre Mario Veronesi, uomo pieno di carità (gli capitava di svenire dalla fame perché dava anche il suo riso ai poveri) viene freddato davanti alla sua chiesa. A Ruhea il nostro padre Luca Marandi è ucciso e non sappiamo ancor oggi in quali circostanze».