Segnali di crisi nel secondo produttore mondiale dell’abbigliamento. Secondo i dati ufficiali nei primi dieci mesi del 2019 ben 60 aziende hanno chiuso i battenti pressate dalle guerre commerciali ma anche dall’incapacità di investire in standard di produzione più sostenibili. Le accuse dei lavoratori: «Chiude chi ha ha pensato solo ad accumulare proventi all’estero»
Fino a settembre, Tarik Hasan, musulmano e padre di due figli, era un impiegato da Angela Fashions, una fabbrica di abbigliamento nella città portuale di Chittagong nel Bangladesh sudorientale. Poi a ottobre improvvisamente si è trovato senza lavoro: la fabbrica dove lavorava ha chiuso dopo che per diversi mesi gli ordini in patria e all’estero sono crollati. Ora si trova costretto a lavorare come bracciante a giornata per meno della metà del suo stipendio precedente (che era di 177 dollari americani al mese), e anche la moglie lavora come collaboratrice domestica per permettere ai loro due figli di continuare ad andare a scuola.
Da diverso tempo ormai l’industria dell’abbigliamento del Bangladesh, con i suoi 30 miliardi di dollari, è la seconda al mondo dopo quella cinese, fornendo capi di abbigliamento per marchi di alta moda in Europa e Nord America. Lo stesso governo bengalese ha dichiarato di voler aumentare l’export nel settore tessile per arrivare a 50 miliardi nel 2021.
Quello dell’abbigliamento è il settore che procura quasi tutta la valuta straniera al Bangladesh, oltre a dare lavoro a circa quattro milioni di persone, la maggior parte delle quali sono donne provenienti dalle aree rurali. La loro storia è anche stata verosimilmente trasposta nel film “Made in Bangladesh” della regista Rubaiyat Hossain, e presentato per la prima volta a ottobre al Toronto International Film Festival.
Questa branca dell’industria ha trainato l’economia locale, soprattutto grazie agli imprenditori cinesi che visto l’aumento del costo della manodopera in patria hanno ben pensato di andare a cercarla dove era meno cara; però ora il settore tessile anche in Bangladesh sembrerebbe entrare in una fase di crisi.
Secondo il Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA), una delle maggiori organizzazioni dei produttori tessili del Paese, negli ultimi dieci mesi 60 aziende hanno chiuso i battenti e 30.000 lavoratori sono stati licenziati. Oltre a questi dati, secondo i media locali anche altre 40 piccole imprese al di fuori del circuito del BGMEA hanno chiuso lasciando senza lavoro 60.000 lavoratori.
Dietro a queste chiusure vi sarebbe una concatenazione di eventi sul piano dello scenario economico globale. La richiesta di prodotti manifatturieri bengalesi è diminuita di circa il 17% rispetto all’anno scorso. Questa a sua volta è stata influenzata da un rallentamento delle economie occidentali, dalla guerra sui dazi tra Cina e Stati Uniti e dall’emergere di altri mercati manifatturieri a bassissimo costo come il Vietnam, l’India e il Myanmar.
Inoltre, secondo Rubana Huq, a capo del BGMEA, una carenza sul piano delle innovazioni e la necessità di rendere la produzione più eco-friendly non hanno certo giovato all’industria tessile. «Molte fabbriche sono sorte senza una pianificazione, quindi quando gli acquirenti rifiutano di effettuare ordini da fabbriche senza certificazioni green, sono le stesse fabbriche a risentirne. In più, per anni le fabbriche hanno prodotto articoli standard, che non funzionano più. Dobbiamo migliorare e innovarci per mantenere vivo il business», ha dichiarato all’agenzia ucanews.com.
Negli anni scorsi il sistema Bangladesh è stato posto in discussione per i gravi problemi legati alla sicurezza sul lavoro (venuti alla ribalta nel 2012 quando morirono 117 persone in un incendio e poi nel 2013 con il crollo dell’intera fabbrica al Rana Plaza) ma anche alle condizioni ambientali. Le industrie tessili hanno sempre più bisogno di materie prime, mentre i prodotti chimici utilizzati dalle concerie e tintorie inquinano le risorse idriche del Paese. Ci sono stati passi in avanti in questi anni su questi fronti. Creare strutture più sostenibili, soprattutto nelle imprese più piccole, richiede un aumento degli investimenti di circa un 20-25%. E anche se il ritorno monetario non è immediato, appare una scelta obbligata perché – grazie a campagne di sensibilizzazione come quella portata avanti in Italia da Abiti puliti – hanno fatto crescere in Europa l’attenzione rispetto a questi temi.
È chiaro tuttavia che migliorare gli standard ambientali, garantire un salario minimo più elevato e investire nella sicurezza ha progressivamente fatto aumentare i costi di produzione per gli imprenditori. Insieme alla diminuzione delle richieste a livello globale questa situazione ha posto sotto stress una parte delle imprese bengalesi, soprattutto quelle più piccole.
In Bangladesh c’è però anche chi contesta che la situazione sia così drastica come viene fatto apparire. Jolly Talukder, segretaria del sindacato dei lavoratori dell’abbigliamento con sede a Dhaka ha dichiarato ad Ucanews che «gli affari vanno come al solito nell’industria e solo le piccole fabbriche stanno perdendo affari a favore delle grandi fabbriche». Questo perché una volta ottenuto un certo guadagno i proprietari delle fabbriche – accusa – riciclano i proventi all’estero dicendo che la fabbrica ha subito delle perdite e devono chiudere.
La situazione ha anche portato la gente in piazza. Alcune lavoratrici si sono lamentate dei recenti licenziamenti: «Gli imprenditori dicono che i costi sono aumentati, ma i salari non sono cresciuti di pari passo – ha dichiarato una lavoratrice, Rumana Akter, ad AsiaNews -. Invece di aumentare i salari dei lavoratori con esperienza, assumono nuovo personale per stipendi più bassi».