In una Paese dove le donne per tradizione non hanno accesso ai luoghi di culto, Marina Tabassum ha realizzato il progetto per Baitur Rouf, moschea di Dacca tra le più visitate del Bangladesh, per il quale l’architetta è stata appena insignita di un prestigioso premio.
«Un progetto che sfida lo status quo» : la moschea di Baitur Rouf progettata dalla architetta Marina Tabassum a Dacca è stata definita così dalla giuria che l’ha insignita del prestigioso premio Aga Khan per l’architettura, assegnato ogni tre anni alle opere artistiche realizzate per le comunità musulmane nel mondo e del valore di 1 milione di dollari. A rendere «speciale» questa moschea è soprattutto la firma “in rosa” del progetto che stona con il costume tradizionale dell’intero sud est asiatico che non permette alle donne di accedere ai luoghi di culto.
Eppure, pur non avendo quasi mai messo piede in una moschea proprio come le sue compatriote, Marina Tabassum – di anni quarantacinque e una degli architetti più in vista del Bangladesh – ha realizzato un’opera degna di nota. L’edificio sacro infatti – che certo non è un’eccezione nella capitale bengalese spesso definita la «città delle moschee» – stupisce il visitatore fin dall’esterno: una semplice struttura rettangolare, composta di mattoni d’argilla traforati e priva di cupola e minareto, elementi tradizionali dell’architettura islamica. «Cupole e minareti sono simboli, non sono l’essenza della fede – ha spiegato l’architetto -. Per essere in piena comunione con Dio si ha la necessità di uno spazio dove le persone possano connettersi con il divino. I simboli per me sono una distrazione».
Forse proprio in virtù della sua semplicità che favorisce la spiritualità, Baitur Rouf, completata nel 2012 appena a nord di Dacca, piace a fedeli e curiosi tanto che l’imam del luogo Deen Islam al suo ruolo religioso ha dovuto aggiungere quello di guida turistica. «Vengono da ogni dove, anche da altre parti del Paese – ha spiegato –. Tutti vogliono vedere la moschea o pregare al suo interno». In effetti, le piccole aperture nel soffitto e nelle pareti che fanno trapelare la luce del sole in diverse inclinazioni durante l’arco della giornata, creano un’atmosfera rilassante pur mantenendo fresco l’ambiente. «L’idea di usare la spiritualità come elemento architettonico è sempre stato qualcosa di molto intrigante per me e perciò amo lavorare in luoghi spirituali, sono fonte d’ispirazione» ha precisato Tabassum, già coautrice del progetto di una moschea ad Abu-Dhabi e che, prima di cimentarsi nella realizzazione di Baitur Rouf, ha visitato un centinaio di moschee in tutto il Bangladesh. Il Paese, a grande maggioranza musulmana, può infatti vantare una fiorente tradizione di moschee: le prime costruzioni risalenti al XII secolo combinavano elementi architettonici locali (tipo mattoni d’uso comune) a cupole e guglie, importate a seguito dell’invasione turca. «Baitur Rouf – ha detto Tabassum – rende omaggio a questa tradizione gloriosa, anche se ho aggiunto dei tocchi provenienti dall’architettura contemporanea».
Per l’autrice, ogni progetto deve avere anche una valenza sociale: la moschea di Dacca è stato un modo per creare un angolo di pace nella periferia di una delle città più popolate al mondo «La responsabilità di un architetto va oltre la semplice progettazione di bei palazzi. Potremmo benissimo erigere edifici simili a quelli disegnati da Frank Gehry, ma mi chiedo se sarebbe la cosa giusta da fare in un Paese come il Bangladesh, la cui economia non è ancora sviluppata. In questo contesto, sarebbe sbagliato».
Anche se la Tabassum sminuisce l’aspetto “femminile” nella sua opera, la moschea è nato e cresciuto per volontà di donne. A commissionare la costruzione di Baitur Rouf, infatti, nei primi anni Duemila fu proprio la nonna dell’architetto Sofia Khatun che donò alla nipote la terra e il denaro per la moschea. Non si è trattato però di semplice beneficienza: «Mia madre è morta nel 2002 – ha raccontato Marina – era la primogenita di mia nonna, l’anno successivo anche mia zia è scomparsa. In due anni Sofia ha visto morire due dei suoi figli. Ha chiesto a me di progettare una moschea non solo perché sono un architetto ma anche perché conosceva la mia sofferenza. Baitur Rouf è stato un processo di guarigione per entrambe. Questo premio è anche per lei».