Da Dacca padre Franco Cagnasso racconta i momenti più intensi della visita del Papa e cosa rimane alla Chiesa e alla società civile.
Il momento più intenso? «Quando il Papa ha nominato i Rohingya, (la minoranza etnico-religiosa più perseguitata del mondo secondo l’Onu, ndr). Purtroppo la visita in Bangladesh è stata inquinata da un focus orientato erroneamente su questo: il fatto che pronunciasse o meno il nome dei Rohingya. Alla fine il Papa l’ha fatto esattamente al momento giusto, l’unico possibile, quando li ha incontrati di persona… trovandosi davanti a persone che soffrivano. Il modo con cui li ha ascoltati, e anche aver fatto vedere la sua emozione per i bengalesi è stato un momento bello e significativo. Era una situazione estremamente delicata ed è stata gestita bene. Credo che in questo il Papa si sia fatto guidare davvero dallo Spirito Santo».
A parlare, a tre giorni dal rientro del Papa a Roma dopo la visita in Bangladesh, è padre Franco Cagnasso, missionario del Pime a Dacca. Arrivato in Bangladesh per la prima volta nel 1978, dopo una parentesi di 18 anni alla guida del Pime come vicario e superiore generale fino al 2001, padre Franco è rientrato a Dacca nel 2002. Durante l’incontro di papa Francesco con i religiosi, che si è svolto nella chiesa dell’Holy Rosary a Tejgaon, ha preso la parola a nome dei missionari, parlando di loro come di «un piccolo resto» a servizio della Chiesa locale.
«In pochi minuti ho cercato di concentrare i punti significativi di questa fase della nostra presenza missionaria in Bangladesh – spiega da Dacca padre Franco -. Quando i primi missionari sono venuti in questo Paese erano i protagonisti di quel tanto o poco che si poteva fare. Con il crescere del numero dei cristiani, il clero locale ha via via preso in mano la gestione della Chiesa e il nostro ruolo è diventato di appoggio. Prima eravamo immersi in una grande realtà non cristiana. Oggi siamo anche immersi in una realtà piccola, ma reale, fatta di comunità cristiane, di preti locali. Io stesso ho vissuto per 11 anni nel seminario diocesano e, a parte un fratello svizzero, gli altri erano tutti bengalesi. Mi sono trovato molto bene, umanamente. E ho imparato a osservare. Ora qui in Bangladesh la sfida di noi missionari è cercare di capire sempre meglio il punto di vista di persone che hanno la nostra stessa fede ma cultura diversa. E questi cambiamento sono una fonte di arricchimento, rischiamo meno di essere i protagonisti di un’unica visione dell’annuncio del Vangelo».
È stata la cordialità l’atteggiamento di papa Francesco che ha colpito i bengalesi, secondo padre Franco. «Nell’incontro con i religiosi mi ha colpito il fatto che scendesse ogni volta incontro a chi stava parlando, per abbracciarlo. Non me l’aspettavo. Si vedeva anche che era molto stanco. Nell’omelia ha lasciato da parte il testo scritto e ha parlato a braccio toccando punti vitali per la piccola chiesa del Bangladesh. Ci sono stati riscontri positivi anche da parte di persone di altre religioni, quindi si può sperare che il suo messaggio abbia un’eco anche al di fuori dal contesto cristiano. Anche se bisogna intendersi bene: qui il Papa non lo conoscono in molti. Non bisogna fare l’errore di vedere tutto il mondo da Roma».