L’isola di Basilan è diventata ostaggio dell’islamismo radicale e dei vari gruppi di matrice terroristica che, con le loro azioni armate, insanguinano il Paese. A giustificare combattimenti e rappresaglie sull’isola, però, non è tanto l’ideologia quanto il recente blocco del processo autonomista per il Sud delle Filippine a maggioranza musulmana.
Resta di conflitto aperto la situazione sull’isola di Basilan, al largo della grande città di Zamboanga, roccaforte cattolica dell’isola meridionale filippina di Mindanao.
Al contrario, Basilan, che pure ha una consistente comunità cristiana, è nei fatti ostaggio dell’islamismo radicale con le sue affiliazioni armate e, in particolare, tradizionale rifugio di fazioni del gruppo Abu Sayyaf, noto non solo per la sua affiliazione con Al Qaeda (e più di recente con l’autoproclamato Stato islamico mediorientale), ma anche per le attività di terrorismo e di autofinanziamento con ampio uso di sequestri di persona. A volte finiti in modo tragico, come per i due ostaggi decapitati i cui resti sono stati recuperati martedì scorso dopo nove giorni di cattività.
Basilan, già centro di contrabbando e traffici per la posizione strategica, è da molti anni ostaggio della violenza, con la sua popolazione vicina a 350mila individui, per due terzi musulmani di etnia locale Yakan o immigrati Tausug e un terzo di immigrati cristiani sia da Mindanao, sia da altre aree dell’arcipelago filippino. In questo caso, situazione economica e condizioni socio-culturali non giustificherebbero una ribellione armata, ma interessi di varia natura mantengono alta l’instabilità sui circa 1.200 chilometri quadrati di territorio, a vocazione agricola nell’interno, commerciale sulla costa.
Anche qui, il mancato decollo dell’autonomia per le regioni a maggioranza musulmana del Sud filippino ha incentivato una situazione di grave instabilità e ne ha fatto un rifugio di gruppi in parte impegnati in attività di recupero dell’identità islamica (e tribale) locale, in parte coinvolti con i movimenti jihadisti, anti-occidentali e anti-cristiani sviluppatisi nei conflitti afghani e mediorientali.
Negli ultimi mesi, a giustificare quelli che – come nel caso di Abu Sayyaf – sono più attività banditesche e di terrorismo che non azioni motivate da ideologia, è il blocco del processo autonomista dallo scorso autunno proprio mentre era sulla dirittura d’arrivo dopo avere già fruttato il cessate il fuoco tra truppe governative e Milf (Fronte islamico di liberazione Moro), maggiore gruppo islamista combattente.
L’avvicinarsi delle elezioni presidenziali e amministrative del 9 maggio, poi, ha fornito ulteriore spazio, ragioni e visibilità all’azione armata di gruppi come Abu Sayyaf, i Combattenti islamici per la libertà del Bangsamoro (patria musulmana) a cui vanno, più che le simpatie della popolazione locale (anche di quella seguace di Maometto), il sospetto della maggioranza cristiana del Paese e del Parlamento che la rappresenta a Manila, il dissenso di altri gruppi che vorrebbero finalmente la pacificazione della regione, l’attenzione dei militari che a loro volta hanno ampi interessi in gioco.
Intanto sull’isola che resta un focolaio attivo della violenza che insanguina la regione da un quarantennio e che ha fatto 120mila morti oltre a milioni di rifugiati interni, continuano i combattimenti. In quelli più recenti hanno perso la vita una decina di soldati e una trentina di ribelli, tra cui – per fonti militari – il marocchino Mohammad Khattab, esperto di esplosivi e azioni dinamitarde ma anche elemento di collegamento tra Abu Sayyaf e il network jihadista internazionale.