Con il rifiuto del primo ministro Hun Sen di aprire un dialogo con l’opposizione, si aggrava la crisi cambogiana
Contemporaneamente a “no” alla mano tesa del Partito per la Salvezza nazionale della Cambogia che avrebbe coinvolto anche la comunità internazionale, Hun Sen ha fatto sapere che non chiederà al re Norodom Sihamoni l’amnistia per Kem Sokha leader del partito che sta attendendo in carcere l’inizio del processo per l’accusa di tradimento.
A rafforzare la “linea dura” del capo del governo, ex giovane quadro del regime khmer rosso poi legato ai vietnamiti che avevano messo fine al regime e allo sterminio, al potere da un trentennio, è stata la vittoria del suo Partito del popolo cambogiano nelle elezioni per il Senato del 25 febbraio con la totalità dei 58 seggi. Ottenuta facilmente perché senza alternative e che apre a una vittoria nelle elezioni generali del prossimo luglio. Allo stato attuale, il paese è di fatto sottoposto a un regime autocratico che nemmeno i tagli agli aiuti annunciati dal governo statunitense, né le sanzioni dell’Unione europea possono al momento minacciare, anche se il governo di Phnom Penh rischia di trovarsi in difficoltà nel tempo a venire.
A propiziare questa situazione, infatti, non è solo la volontà di controllo assoluto di HunSen, ma anche la sempre più stretta cooperazione con Pechino, diventato maggiore investitore e maggiore donatore, che tuttavia esige contropartite che potrebbero incidere pesantemente sulla situazione complessiva del paese in cui crescono le tensioni e si divarica la forbice di reddito e possibilità.
Ad avanzare la proposta di negoziati per mettere fine alla crisi in corso era stato domenica 4 febbraio su Twitter Sam Rainsy, fondatore Partito per la Salvezza nazionale della Cambogia e avversario storico di Hun Sen. Sam vive all’estero dal novembre 2015, in un esilio volontario scelto per evitare il rischio di arresto al ritorno in patria. Nemmeno la sua rinuncia alla leadership del partito ha impedito che questo venisse sicolto e i suoi esponenti iù noti e attivi perseguitati. Come il suo vice, i sindacalista Kem Sokha, messo sotto accusa mentre si trovava all’estero, che ha optato per il ritorno ed è stato successivamente fermato e incarcerato con l’accusa di avere complottato con gli Usa contro il governo locale. La “prova” sarebbe un video di anni fa in cui indicava di avere contatti con gruppi democratici americani. La moglie, essa pure nota attivista, è espatriata avventurosamente.
Lo scorso novembre, a conferma anche che il sistema giudiziario è ora privato di autonomia, un tribunale ha accolto la richiesta di scioglimento del maggiore partito di opposizione perché avrebbe cospirato con interessi stranieri per rovesciare il partito di governo. Contemporaneamente i giudici hanno ordinato la chiusura di decine di media indipendenti. A dicembre hanno condannato Sam Rainsy a una seconda pena carceraria per diffamazione dopo che aveva accusato su Facebook Hun Sen di avare offerto un milione di dollari a un esponente politico perché organizzasse pressioni sull’opposizione.
La stretta di Hun Sen sul paese si è incrementata dopo le elezioni del 2013, le prime in cui l’opposizione ha seriamente minacciato lo strapotere del Ppp vincendo 55 seggi nell’Assemblea nazionale contro i 68 del partito di maggioranza. Da allora si sono moltiplicate le mosse per chiudere ogni spazio possibile per la politica avversaria, per i settori più critici della società civile e per i mass media. Con iniziative che hanno colpito anche le molte Ong straniere presenti nel paese, costrette a regole più restrittive quanto ai finanziamenti e loro utilizzo, sottoposte a pressioni e fino all’espulsione per i loro rapporti con i democratici locali.