Lo scorso settembre a Pechino è stato firmato uno storico accordo di cui non si conoscono i contenuti. Riguarda la procedura di nomina dei vescovi. È un nuovo inizio per i cattolici cinesi o un inganno?
Papa Francesco ha riportato con la Cina uno dei risultati più significativi del suo Pontificato. Lo scorso 22 settembre, infatti – dopo anni di attesa, di speculazioni e di incertezze -, Cina e Santa Sede hanno raggiunto un “accordo provvisorio”, il cui contenuto non è stato reso noto. Ma è stato comunicato che riguarda la procedura per la nomina dei vescovi.
La firma è avvenuta a Pechino tra Antoine Camilleri, sottosegretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e Wang Chao, viceministro degli Affari esteri della Repubblica Popolare Cinese. Il comunicato della Santa Sede dello stesso 22 settembre afferma che la nomina dei vescovi è una «questione di grande rilievo per la vita della Chiesa» e che l’accordo, frutto di «ponderata trattativa», è atto a «promuovere ulteriori rapporti di intesa». Sono previste «valutazioni periodiche circa la sua attuazione» e ci si augura che il dialogo favorisca «positivamente la vita della Chiesa cattolica in Cina, il bene del popolo cinese e la pace nel mondo».
L’Associazione patriottica dei cattolici cinesi e la Conferenza episcopale ufficiale hanno annunciato l’accordo, ricordando «l’amore per la patria e la Chiesa» dei cattolici cinesi; i quali «mantengono i principi di autonomia e di indipendenza nell’amministrazione della Chiesa». Nello stesso documento si dichiara di voler seguire il programma di “cinesizzazione” (ovvero di rimodellamento delle religioni universali secondo le caratteristiche cinesi) e la via dell’adattamento alla società socialista, sotto la guida del Partito comunista.
Altri eventi sono seguiti a ritmo incalzante, dando un’accelerata alla questione ecclesiale cinese: il Papa ha riammesso alla piena comunione otto vescovi non ancora riconosciuti. Tra loro persino un vescovo già deceduto, il francescano Antonio Tu Shihua, che prima della morte aveva chiesto la riconciliazione. Il Papa ha inoltre eretto la nuova diocesi di Chengde, regolarizzando la posizione del vescovo Giuseppe Guo Jincai.
Papa Francesco, si leggeva nel comunicato della Santa Sede, auspica «un nuovo percorso, che superi le ferite del passato e realizzi la comunione dei cattolici cinesi». Francesco ha dato poi corpo al suo pensiero in due occasioni. La prima circostanza al ritorno dalla Lituania (all’indomani dell’accordo) quando ha voluto rivendicare, oltre ogni dubbio, il suo ruolo: «L’accordo l’ho firmato io», «Io sono il responsabile». Il Papa ha dichiarato di essere pienamente consapevole di quanto è stato deciso, avendo studiato lui stesso, uno per uno, i casi dei vescovi illegittimi. Ha riconosciuto il valore della sofferenza e della resistenza dei cattolici cinesi. Ha persino ammesso che alcuni cattolici potranno soffrire ancora: «È vero, loro soffriranno. Sempre, in un accordo, c’è sofferenza».
Il 26 settembre viene pubblicato un lungo messaggio di Papa Francesco ai cattolici di Cina. Un evento che si riallaccia all’importante lettera di Benedetto XVI del 2007. Francesco vuole illustrare il significato dell’accordo, che porta a compimento un lungo cammino, iniziato da Giovanni Paolo II e continuato dallo stesso Benedetto. La Santa Sede, afferma il Papa, ha in animo solo la realizzazione delle «finalità spirituali e pastorali proprie della Chiesa», «l’annuncio del Van-gelo» e «la piena e visibile unità della comunità cattolica».
Francesco interpreta l’accordo come una chiamata a fidarsi di Dio. E chiede ai cattolici, dentro e fuori la Cina, di realizzare l’auspicio del Concilio: uscire da se stessi «per abbracciare le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi».
Bisogna dunque accogliere le sfide del presente, farsi pellegrini sui sentieri della storia, fidandosi innanzitutto di Dio e delle sue promesse. Nelle settimane successive è sembrato che qualcosa fosse davvero cambiato tra Cina e Vaticano. Due vescovi cinesi hanno potuto partecipare, per la prima volta, al Sinodo sui giovani a Roma. Simili inviti dei predecessori di Francesco erano stati respinti dalle autorità cinesi. I due sono il vescovo di Yan’an, Giovanni Yang Xiaotin, e il già menzionato Giuseppe Guo. Entrambi sono evidentemente graditi alle autorità. Tuttavia Yang ha un profilo rassicurante: ha studiato all’Urbaniana e negli Stati Uniti. Nel 2006 aveva tenuto una apprezzata relazione a un importante Colloquium sulla Chiesa in Cina a Triuggio (Milano), organizzato da padre Giancarlo Politi del Pime. Alcuni di noi conoscono bene sia lui che la sua famiglia.
Nel momento dell’apertura del Sinodo, lo scorso 3 ottobre, Papa Francesco ha salutato i due vescovi con visibile emozione: «Diamo loro il nostro caloroso benvenuto: la comunione dell’intero episcopato cinese con il successore di Pietro è ancora più visibile grazie alla loro presenza».
A metà ottobre altri tre vescovi cinesi hanno preso parte a “Ponti di Pace: lo spirito di Assisi”, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Bologna. Con la visita in Italia di cinque vescovi cinesi l’accordo sembra portare i primi frutti. I due presenti al Sinodo hanno esteso al Papa l’invito, forse solo di cortesia, di visitare la Cina. In questi giorni si parla persino della possibilità della visita del Papa in Corea del Nord. Dunque, pensa qualcuno, una visita del Papa in Cina non può più essere esclusa del tutto. Sarebbe meraviglioso se questo accadesse, ma riteniamo sia troppo presto e azzardato fare previsioni.
È bene che ci sia stato questo accordo, perché il Papa stesso l’ha fortemente voluto. Alti esponenti del Vaticano hanno messo in rilievo che non è quanto la Chiesa avrebbe desiderato; piuttosto è quanto è riuscita a ottenere in un negoziato difficilissimo con un interlocutore caparbio e implacabile.
L’accordo è stato siglato in un anno molto negativo per la libertà religiosa in Cina, e in particolare per i cattolici. Dal primo febbraio 2018 nuovi regolamenti inaspriscono le limitazioni. E, soprattutto, a differenza degli anni scorsi, essi vengono applicati con zelo inusitato dai funzionari locali: croci abbattute o bruciate; chiese demolite o spogliate; minori impediti di partecipare alla Messa o fatti uscire dalla chiesa. Oltre alle molteplici testimonianze dirette, anche alcuni video amatoriali provano con certezza questi soprusi. Viene inoltre proibito organizzare campi di studi per giovani. Nelle chiese vengono imposti la bandiera nazionale e un comitato di supervisione. Si cerca in tutti i modi di eliminare da internet la presenza cattolica sgradita.
Il triste caso del vescovo di Shanghai Taddeo Ma Daqing, da sei anni agli arresti domiciliari, non è stato risolto. Il programma di “cinesizzazione”, imposto dal leader Xi Jinping, viene applicato senza risparmio di mezzi e uomini. Più in generale, nel Paese, tutte le libertà religiose e civili sono sottoposte a un tremendo giro di vite.
Insomma, anche dopo la firma dell’accordo i cattolici non hanno assolutamente maggiori libertà. Gli stessi uomini della Santa Sede, che per anni hanno lavorato per ottenere questo risultato, mostrano cautela piuttosto che esultanza. Con questa firma, tuttavia, la Cina riconosce la Chiesa cattolica romana come interlocutore degno di un accordo. Un risultato diplomatico notevole, ascrivibile oltre che all’impegno dei responsabili vaticani, al prestigio internazionale di Papa Francesco.
Bisogna ricordare che, se il Papa ha riconosciuto i vescovi illegittimi, le autorità cinesi non hanno riconosciuto i 35 vescovi “sotterranei” da sempre in comunione con la Chiesa. Ancora oggi non possono svolgere appieno il loro ministero, anzi sono vittime di limitazioni e persino di repressioni. L’accordo, dunque, non è simmetrico, e c’è da augurarsi che questa evidente anomalia venga corretta in futuro.
Dal punto di vista ecclesiale, il risultato migliore è il fatto che, per la prima volta in sessant’anni, tutti i vescovi della Cina (sono circa 110) sono in comunione con la Santa Sede, che immagino abbia voluto evitare la concreta possibilità che il regime continuasse la nefasta pratica dell’ordinazione di vescovi illegittimi. Nelle circostanze attuali, senza un accordo, il numero di vescovi illegittimi sarebbe potuto salire moltissimo. Roma non poteva rischiare di avere decine di vescovi del tutto svincolati dalla comunione ecclesiale e soggetti solo al governo.
D’ora in avanti sarà il Papa a nominare i vescovi. Non è una cosa da poco. Anche se il meccanismo non è stato fatto conoscere, si immagina che il candidato sia scelto attraverso il “metodo democratico”, ovvero una procedura di elezione locale, già attuata da molti anni, in cui i preti hanno diritto di voto. Una procedura, tuttavia, soggetta al controllo e alla manipolazione dei funzionari del governo. Non sempre i candidati eletti attraverso questo processo sono i migliori, ma non sempre sono i peggiori. Spesso si elegge un candidato che può tenere la diocesi unita. Ora, di fronte alla necessità che il candidato sia da sottoporre, in ultima istanza, all’approvazione e alla nomina del Papa, si dovrebbe procedere sempre alla elezione di candidati moralmente e pastoralmente di qualità.
Dal momento che le autorità politiche sono coinvolte nel processo di elezione dei candidati da presentare al Papa, la Santa Sede ha fatto un grande gesto di accondiscendenza verso la Cina. Il Santo Padre certamente può opporre un veto e in nessun modo deve nominare chi non gli è gradito.
Non è opportuno invocare precedenti storici a giustificazione del ruolo concesso alle autorità statali nell’elezione dei candidati. È vero che in passato poteri temporali hanno pesantemente interferito o addirittura ottenuto per sé il diritto di nomina dei vescovi. Ma era una situazione negativa a cui il Concilio Va-ticano II e il Codice di diritto canonico hanno posto una netta svolta, con parole fermissime. È meglio dunque rileggere questo accordo ribadendo la straordinarietà del caso Cina, e la necessità, in questa circostanza storica, di una “concessione eccezionale” per evitare mali più gravi e per il bene supremo del popolo di Dio.
Le autorità politiche cinesi non hanno dato eccessiva visibilità alla vicenda dell’accordo. Il ministero degli Esteri, che l’ha firmato, cerca affermazioni internazionali che diano lustro alla Cina. Ma altri centri di potere mostrano contrarietà, per quanto non esplicite, all’accordo, perché mette in discussione le loro posizioni. Il ruolo dell’Associazione patriottica (che ha anche un ritorno economico dal controllo della Chiesa) potrebbe uscirne ridimensionato. Lo stesso vale per i funzionari dell’Ufficio Affari religiosi. L’inasprirsi della repressione religiosa di queste ultime settimane potrebbe trovare qui una sua ragione. La complessa e contradittoria macchina amministrativa e di controllo della politica religiosa cinese avrà bisogno di tempo per fare i conti con questa novità, alla quale fa resistenza.
Non possiamo nemmeno escludere che si tratti, da parte del regime cinese, di un astuto inganno: ottenere un prestigioso risultato internazionale mentre si aumenta la repressione interna. C’è inoltre il “fattore Taiwan” da non sottovalutare. L’isola, formalmente sede della Repubblica di Cina – che Pechino considera una provincia ribelle – ha nella Santa Sede il più significativo riconoscimento diplomatico internazionale. Con questo accordo, Taiwan viene ulteriormente messa in difficoltà.
Comunque sia, anche ammettendo la buona volontà da parte cinese, è chiaro che l’accordo non significa affatto che la situazione dei cattolici in Cina debba migliorare. La situazione irrisolta delle comunità sotterranee e dei vescovi e preti in stato di detenzione o limitazione della libertà lo dimostra drammaticamente. Anzi, è possibile che i cattolici cinesi avranno, per qualche tempo, problemi ancora più gravi. Ma conosciamo la forza morale e la fede dei cattolici di Cina, che hanno superato tante prove.
L’accordo ha suscitato entusiasmi forse eccessivi e critiche forse troppo severe. Francesco ha detto che sa quello che sta facendo in Cina. È il momento dell’unità.