Col Coronavirus torna a galla il dramma irrisolto dei Rohingya

Col Coronavirus torna a galla il dramma irrisolto dei Rohingya

I campi profughi di Cox’s Bazar in Bangladesh sono stati colpiti dal ciclone Amphan proprio mentre venivano accertati i primi casi di Covid19. Il timore della diffusione del contagio riporta in primo piano l’insostenibilità della situazione degli 850mila Rohingya fuggiti dal Myanmar

 

L’esaurimento della furia del ciclone Amphan – che per buona parte della settimana ha scaricato sulle coste del Golfo del Bengala una potenza distruttiva mai vista da molti anni – ha provocato danni enormi ma fortunatamente poche vittime in Bangladesh, data la collaudata esperienza di contrasto a fenomeni naturali devastanti. Il ciclone ha tuttavia sollevato molti timori tra le autorità che già in questi giorni stanno affrontando il picco dell’epidemia di Covid-19 e che con ovvie difficoltà hanno gestito l’afflusso di milioni di sfollati temporanei nei rifugi.

Particolarmente difficile, per le condizioni di sovraffollamento e di precarietà preesistenti, è risultata la gestione dell’emergenza nei campi profughi in cui sono ospitati centinaia di migliaia di Rohingya fuggiti negli ultimi anni dalla persecuzione in Myanmar. Il governo di Dakha sta monitorando strettamente la situazione, sia in termini sanitari, sia per garantire cibo e servizi necessari, insieme alle organizzazioni internazionali presenti. A rischio – ha segnalato Jean Gough, direttore dell’Unicef per l’Asia meridionale – sono soprattutto i bambini, oltre la metà degli 850mila Rohingya nelle estese ma precarie aree abitative allestite presso il confine con il Myanmar nell’area di Cox’s Bazar.

Nella comunità va diffondendosi la paura, dopo che è stato accertata la positività al Covid-19 di un Rohingya e di un bengalese nel campo di Katupalong. I due sono stati ricoverati, mentre sei famiglie con cui avevano avuto contatti sono ora in isolamento. In tutto i casi registrati tra i Rohingya sono già 21. La densità nella maggioranza dei 34 campi è molto alta, con anche 40mila persone per chilometro quadrato, e ogni ulteriore situazione di rischio si innesta su emergenze pressoché costanti, tra cui quella sanitaria e alimentare.

«Proteggere le comunità Rohingya e, in particolare, i più piccoli, in un’area dove è già presente un alto tasso di malnutrizione, resta la nostra priorità – ha dichiarato Simone Garroni, direttore generale di Azione contro la Fame -. In tal senso, stiamo collaborando con i nostri partner locali per concordare, insieme, le attività più opportune per mitigare l’impatto di venti e piogge che rischiano di abbattutisi nel campo profughi più grande al mondo».

Altra condizione critica è la collocazione dei campi, allestiti in aree collinari a rischio di smottamenti ed erosione, su terreni dove è forte il rischio di competere per le risorse con gruppi locali e tribali. Problematica infine è la condizione di donne e bambini, a rischio di sfruttamento e abusi da parte di elementi locali ma anche delle organizzazioni che gestiscono la tratta di esseri umani. Nell’impossibilità di provvedere al rimpatrio per l’incertezza della situazione nelle aree di provenienza, di individuare una regolarizzazione in loco o anche di un espatrio verso Paesi aperti all’accoglienza, quella dei Rohingya in Bangladesh resta una situazione senza prospettive.

Potrebbe non concretizzarsi mai anche l’evacuazione parziale verso l’isola di Bhasan Char, poco più di un esteso banco di sabbia a una quarantina di chilometri al largo dalla costa del Bangladesh in un’area costiera distante dai campi profughi. Qui dallo scorso anno il governo di Dakha ha allestito strutture stabili per ospitare anche 100mila persone e da alcune settimane vi ha trasferito decine di Rohingya salvati da naufragi. Una mossa che però ha sollevato forti proteste e la richiesta di una diversa collocazione. «Il governo dovrebbe fare tutto quanto in suo potere per prevenire la diffusione dell’epidemia – ha sottolineato Matthew Smith, direttore della Ong Fortify Rights – ma Bhasan Char non è un’opzione accettabile per rispondere alla diffusione del coronavirus».