Il regime militare di Yangon non risparmia nessuno. Come testimoniano anche le vicende tragiche di tre poeti uccisi durante le proteste
Ogni dittatura ha i suoi poeti. Poeti capaci di cantare «fra i morti abbandonati nelle piazze» un «urlo nero» di rivolta contro lo sfregio inflitto alla dignità umana. Sono fortunati, questi uomini e queste donne, se sopravvivono al loro coraggio. Così non è stato per i poeti birmani K Za Win, Daw Myint Myint Zin e Khet Thi, oppositori a parole e nei fatti della giunta militare che il 1° febbraio 2021 con un colpo di Stato ha preso il potere in Myanmar.
K Za Win aveva iniziato a pubblicare poesie a 16 anni e da allora non si era più fermato, arrivando sulle pagine dei quotidiani locali. Figlio di contadini, era originario della zona rurale
di Latpadaung, nei pressi di Monywa, una cittadina sulle rive del fiume Chindwin, nel cuore del Myanmar; nel 2010, molti villaggi della sua regione sono stati forzatamente spostati dalla compagnia mineraria cinese Wanbao Copper Mining Ltd, mentre la polizia reprimeva violentemente le proteste degli abitanti. Lui stesso ha pagato il suo attivismo politico – concretizzatosi nella partecipazione alla “Lunga marcia per le riforme educative” del 2015 – con un anno e un mese di prigione, da cui nacque la “Lettera dal carcere”, tradotta in italiano da Carla Buranello. Nella sua ultima poesia, il teschio di una manifestante ventenne uccisa dalla polizia durante le proteste contro il golpe diventa oracolo della rivoluzione che avrebbe ridato libertà al popolo. È stato assassinato a 39 anni dalle forze governative il 3 marzo 2021 nel corso delle proteste a Monywa.
Durante le stesse manifestazioni è stata uccisa dalla polizia anche Daw Myint Myint Zin, poetessa e insegnante oppositrice della giunta. Molto amata dai suoi studenti (per i più bisognosi lavorava anche gratuitamente), aveva chiesto di poter donare il proprio corpo alla medicina per salvare altre vite qualora la lotta per la democrazia avesse reclamato la sua. Aveva 34 anni.
Khet Thi, invece, era nato nel 1976 e fino al 2012 aveva lavorato come ingegnere. Lucidissimo e immaginifico cantore degli oppressi, il suo capolavoro è certamente “Le Gole di Yangon”, poema del dolore, ma anche di un popolo che risorge, cantando dagli abissi dell’oppressione e della miseria. Dopo il colpo di Stato, era diventato una delle voci più importanti dell’opposizione ai militari, coniando a proposito anche una frase poi divenuta celebre e riportata dal Guardian in occasione della sua morte: «Mirano alla testa, ma non sanno che il posto della rivoluzione è nel cuore». È stato prelevato per un interrogatorio da agenti del regime l’8 maggio 2021 a Shwebo, cittadina nella regione di Sagaing notoriamente avversa alla giunta militare. Due giorni dopo è stato restituito cadavere alla famiglia, come dichiarato anche dalla moglie Chaw Su alla versione in lingua birmana della BBC.
La violenza omicida del regime è riuscita a distruggere i corpi di questi tre poeti, ma per quanto riguarda lo scopo ultimo di tanta abiezione – mettere a tacere tutte le voci contrarie al potere – esso non è stato raggiunto: quelle di K Za Win, Daw Myint Myint Zin e Khet Thi sono ancora vive, sono state tradotte in molteplici lingue e hanno trovato uditori in ogni angolo del mondo, sia tra gli appassionati di poesia che tra i lettori delle maggiori testate giornalistiche, come il già citato Guardian, il Times e lo Special Broadcasting Service australiano.
In questo senso, non si può non segnalare il grande servizio reso dal poeta e traduttore birmano Ko Ko Thett, autore della versione inglese di molti versi di K Za Win e Khet Thi. Grazie a lui, la poetica dei dissidenti di quel Paese fa parte ormai della cultura globale.
La giunta militare conosce il potere delle parole e per questo le teme: solo a marzo, altri dieci poeti birmani (tra cui Maung Yu Py, il più giovane scrittore apparso nella raccolta britannica Bones Will Crow: Fifteen Contemporary Burmese Poets, ARC edizioni, 2012) sono stati incarcerati in Myanmar dalla macchina repressiva.
È anche e soprattutto per loro che le poesie dei dissidenti devono acquisire sempre più forza nel cuore delle persone: sono lo strumento con cui i birmani possono trovare la loro voce contro il terrorismo di Stato; ma sono anche un grido contro l’indifferenza del mondo di fronte alle nefandezze commesse dalla giunta contro il suo stesso popolo. K Za Win, Daw Myint Myint Zin e Khet Thi hanno speso la loro vita cercando con le parole di portare un barlume di libertà e giustizia nel loro Paese: se anche grazie alle loro opere questo continuerà a essere possibile, allora vorrà dire che sarà stata la loro vita, e non la loro morte, a essere servita a qualcosa.
Non voglio essere un eroe
Non voglio essere un eroe,
non voglio essere un martire,
non voglio essere un debole,
non voglio essere uno stupido.
Non voglio supportare
l’ingiustizia.
Avessi solo un minuto da vivere,
voglio che la mia coscienza sia pulita per quel minuto.
Da uno scritto apparso due settimane dopo il colpo di Stato militare e riportato dal Guardian in occasione della morte dell’autore, Khet Thi. Traduzione di Simone Santini