A venticinque anni dall’uccisione di padre Salvatore Carzedda a Zamboanga, l’importanza di continuare a promuovere l’incontro tra cristiani e musulmani. Per costruire un’alternativa alla violenza
Venticinque anni fa, il 20 maggio 1992, veniva ucciso padre Salvatore Carzedda, missionario del Pime, a Zamboanga City, durante un corso tenuto dal movimento di dialogo Silsilah per leader cristiani e musulmani. Quel martirio ha segnato l’inizio di altre forme di “martirio”, che i cristiani continuano a vivere ancora oggi specialmente a Mindanao.
Di qui l’importanza – ora più che mai – di fare memoria del passato e mantenere una buona dose di coraggio nello spirito di dialogo per guardare avanti con speranza. Molte, infatti, sono le sfide che siamo chiamati ad affrontare nelle Filippine.
L’arcipelago, con le sue settemila e più isole, ha una posizione strategica in Asia. L’islam vi è entrato ufficialmente nel 1380, dal Sud, mentre i colonizzatori portoghesi e spagnoli sono arrivati per la prima volta nel 1521 nella zona centrale dell’arcipelago che in seguito è stato chiamato Filippine, per onorare il re Filippo II di Spagna. Sono seguite l’occupazione degli americani nel 1898 e quella dei giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Quindi, dopo la proclamazione della Repubblica delle Filippine nel 1948, si è formato il Partito comunista armato (1968) che chiedeva maggiore giustizia sociale, mentre successivamente sono nati il Moro National Liberation Front (Mnlf, 1968) e il Moro Islamic Liberation Front (Milf, 1981), che rivendicano l’indipendenza o una importante autonomia per Mindanao, o almeno per province considerate “Moro”, nome che identifica i gruppi musulmani locali.
Questi gruppi hanno ancora un ruolo e un peso significativi qui a Zamboanga. Ma accanto a loro, è sempre più visibile la presenza di islamici radicali che giustificano la violenza con l’insegnamento dell’islam. I cattolici, che rappresentano la maggioranza della popolazione filippina (circa l’85% su cento milioni di abitanti), hanno una grande responsabilità. Nel 2021, la Chiesa celebrerà i cinquecento anni di presenza cristiana nelle Filippine e i cattolici sono chiamati a riflettere sulla loro missione per vivere con coraggio la fede, in uno spirito di dialogo. La grande sfida per loro è quella di riaffermare la loro identità ed essere capaci, al tempo stesso, di dialogare con le altre culture e religioni, specialmente con i musulmani che rappresentano il 5% a livello nazionale, ma a Mindanao sono il 20% e in alcune province la maggioranza.
Il dialogo tra cristiani e musulmani deve fare ancora molta strada. Oggi in particolare diventa sempre più difficile per la presenza di gruppi violenti. Un effetto negativo di questa nuova ondata di radicalismo islamico è la rottura dei rapporti tradizionali che si sono creati in passato tra le due comunità. Ora, in molte zone, regna la paura non solo tra cristiani ma spesso tra gli stessi musulmani che non si riconoscono nelle derive fondamentaliste, spesso sostenute dall’esterno con ingenti finanziamenti. Questo provoca forti contrasti anche tra gruppi musulmani con orientamenti diversi.
La situazione diventa ancora più complicata se pensiamo che la pace a Mindanao – oggetto di tante discussioni e intese – è ancora a rischio. La lotta si è sviluppata soprattutto durante il periodo della legge marziale negli anni Settanta, con una recrudescenza agli inizi degli anni Duemila. Ora si vorrebbe introdurre un sistema federale sotto il presidente Rodrigo Duterte. Il quale ha dato vita a un governo forte ma violento, che sta creando diverse reazioni a livello nazionale e internazionale, specialmente per quanto riguarda la “guerra contro la droga” o il progetto di reintrodurre la pena di morte. Il linguaggio di Duterte irrita molti, dentro e fuori il Paese, ma il presidente riscuote ancora molto consenso per il suo impegno a risolvere i gravi problemi che attanagliano le Filippine. Il fatto, però, di non rispettare alcuni principi fondamentali dello Stato di diritto porterà presto a nuovi sviluppi, che fanno pensare che questo governo non durerà a lungo.
In questo contesto, dopo quarant’anni di missione nelle Filippine, soprattutto a Mindanao, mi sembra quanto mai necessario avere un grande coraggio per andare avanti e la capacità di trovare spazi di dialogo che possano diventare segni di speranza per la pace futura in questo Paese.
Nel 1977, quando sono arrivato a Mindanao, nella mia prima missione di Siocon, a Zamboanga del Norte, ho scoperto una copia in miniatura dei problemi che esistevano – e in parte esistono ancora – in questa regione. Ho trovato gruppi di cristiani emigrati da altre parti del Paese, gruppi tribali che abitavano sui monti e musulmani dispersi dal conflitto in corso. Era il tempo della legge marziale e molti vivevano in una condizione di estrema povertà e di paura.
In particolare, i cristiani temevano i musulmani e i militari; i musulmani avevano paura di un governo militarizzato che dava poca attenzione alle minoranze; i gruppi tribali, invece, erano molto spesso oppressi sia dai cristiani che dai musulmani. Il tutto, in uno scenario di rivoluzione con conflitti aperti tra il Moro National Liberation Front e l’esercito.
Questa realtà mi ha portato a dare un’attenzione particolare ai musulmani per provare a essere un ponte di speranza specialmente con i cristiani. Non è stata una cosa semplice, ma ho sentito di doverla fare e così ho fatto del mio meglio anche per accostare i gruppi ribelli e dare il mio contributo di presenza e solidarietà per aiutare nel processo di pace.
Tutto questo è stato determinante anche nella scelta di iniziare il movimento di dialogo Silsilah a Zamboanga City, nel 1984. Sin dall’inizio, siamo riusciti ad affermare la nostra identità di movimento sostenuta da una spiritualità di vita in dialogo, proposta sia ai cristiani che ai musulmani.
Abbiamo presentato in modo chiaro questa spiritualità, partendo dalla convinzione che “il dialogo comincia da Dio e porta a Dio”. Quattro sono i pilastri su cui si fonda: il dialogo con Dio, il dialogo con noi stessi, il dialogo con gli altri e il dialogo con la creazione. Con i cristiani abbiamo messo in evidenza l’importanza delle “Beatitudini”, sintesi di un cammino di fede, e per i musulmani il “grande jihad” ovvero il processo di purificazione interiore.
All’inizio, alcuni hanno criticato questa scelta di fondare il dialogo sulla spiritualità. Durante il periodo della legge marziale, molti erano spinti ad aderire a gruppi con orientamenti sociali che mettevano in secondo piano l’importanza della spiritualità come fondamento per un impegno più profondo di dialogo e di pace. A noi, invece, ha permesso di vivere con coraggio e determinazione il dialogo.
In una società dove regnano la paura e il pregiudizio, che spesso si traducono in odio, tutto questo non è semplice. Noi siamo stati fortunati perché, sin dall’inizio, molti leader cristiani e musulmani hanno capito e rispettato il cammino del movimento. Questo spirito positivo in generale si è mantenuto anche a livello nazionale, quando il Silsilah si è sviluppato ulteriormente e io sono stato chiamato a servire la Conferenza episcopale delle Filippine come segretario della commissione per il dialogo interreligioso.
Il Silsilah è considerato il primo movimento che ancora oggi continua la sua missione con una visione chiara. Questo disturba in qualche modo le ideologie più radicali presenti a Mindanao e con legami internazionali. In modo visibile, queste ideologie si sono manifestate agli inizi degli anni Novanta con l’arrivo di gruppi musulmani che hanno presentato un islam più radicale. Sono arrivate anche tante borse di studio offerte specialmente dai Paesi del Golfo ai giovani musulmani. I quali, molto spesso, dopo gli studi sono tornati nelle Filippine con orientamenti più fondamentalisti.
Potrei raccontare molti episodi di attentati che alcuni di noi hanno subìto, nonché la bomba lasciata dentro il nostro centro che fortunatamente non è esplosa. Soprattutto vorrei ricordare l’uccisione di padre Salvatore Carzedda, nel 1992, che ha segnato anche l’inizio di una lotta più aperta contro i cristiani. Tra i nostri ex alunni e membri del Silsilah, ci sono, infatti, altri martiri: il vescovo di Jolo, Benjamin de Jesus, omi, ucciso nel 1997; padre Rhoel Gallardo, cmf, ucciso a Basilan nel Duemila; padre Reynaldo Jesus Roda, omi, ucciso a Tawi-Tawi nel 2008. Ma tra gli alunni del Silsilah certamente ce ne sono altri, di cui non abbiamo notizia. Questi tristi eventi, però, ci confermano nell’urgenza di stare a fianco di quanti vivono in situazioni difficili e di dare coraggio a tutti coloro che sono sotto la pressione dei gruppi più radicali. Questa situazione sta dividendo anche i musulmani più moderati che apprezzano il dialogo promosso dal Silsilah e sta allarmando tutti, compresi i leader islamici. Ne parliamo spesso anche nei nostri gruppi chiamati “Inter-faith Council of Leaders” (Ifcl), formati da leader cristiani e musulmani, che credono nel dialogo e fanno parte del movimento.
Ci sono fortunatamente anche storie belle, che ci incoraggiano ad andare avanti nonostante tutto. Tra i tanti esempi positivi posso citare quello di un giovane insegnante musulmano, venuto ai nostri corsi anni fa. Ora è diventato un grande promotore di dialogo nella sua zona. «Padre – mi ha detto un giorno – io sono venuto al corso del Silsilah per capire cosa dite. Avevo intenzioni critiche, ma poi ho capito il valore di quello che insegnate e adesso cerco di portare avanti il dialogo nella mia zona, dove avanza sempre più il radicalismo islamico che istiga alla violenza».
Un’altra storia commovente è quella di un leader musulmano di Basilan, membro del nostro gruppo. «Sono stato minacciato – ha raccontato – da altri leader musulmani che volevano scoraggiarmi a partecipare, ma io continuo a essere qui con voi perché credo in questa missione di dialogo».
Oggi molti pensano che la situazione potrà migliorare solo con un aumento della presenza di militari nelle zone più a rischio. Personalmente sono convinto che bisogna trovare soluzioni più vere e durature, attraverso un cammino che aiuti questa società a riscoprire i valori fondamentali del bene comune e del rispetto delle differenze culturali e religiose.
È un cammino lungo, ma necessario, che noi cerchiamo di fare con pazienza e coraggio. Siamo, infatti, convinti che nel cuore di ogni uomo ci sia sempre un angolo di bontà che va riscoperto per lavorare insieme come una grande famiglia umana.