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Icona decorativaIcona decorativa4 Agosto 2019 Alberto Caccaro

Crema sbiancante

L’aumento dei colletti bianchi ha fatalmente trasformato la città in un ambiente di burocrati ormai lontani dal sole delle campagne. Anzi, mantenere la pelle “bianca” proteggerla dalla luce del sole perché non diventi scura, è ormai una delle loro preoccupazioni
  «Non c’è pace lontano dalla terra nuda. Non c’è riposo se il cielo non si vede» M. Gualtieri Di questi tempi, quel che temo di più, qui in Cambogia, è l’incipiente urbanizzazione, frutto, in parte, della scolarizzazione e gravida, in parte, di secolarizzazione. Sono fenomeni che si intrecciano. Mi spiego. In questi anni, come tanti altri missionari, mi sono dedicato alla scolarizzazione. Pur rimanendo un priorità, con il tempo essa ha creato e sta creando così tanti “colletti bianchi”, tecnici, ingegneri, informatici, contabili che ora, con i loro titoli, non possono più fare a meno delle città per vivere e lavorare. I tanti studenti che abbiamo sostenuto fino alla laurea e dei quali andiamo fieri, non avrebbero mai potuto trovare lavoro nelle campagne e nei villaggi che hanno lasciato. Laggiù, tra strade sterrate e acquitrini paludosi, spesso senza elettricità e infrastrutture, sono rimasti solo i vecchi e i bambini. Un effetto problematico della scolarizzazione è dunque l’urbanizzazione, l’esodo dalle campagne alle città, con biglietto di sola andata. Verso Phnom Penh, Siem Riep, Sianoukville, città ormai zeppe di giovani, di edifici e di imprese d’ogni tipo. Ben venga tutto questo, non ho dubbi. E nondimeno in una simile incipiente urbanizzazione, che cosa già comincia a mancare? Direi così. Ci siamo lasciati alle spalle la terra e ciò che gli attiene: il valore del tempo, la dignità della fatica fisica e l’esperienza di un destino comune. Ci ammonisce la poesia, ricordandoci che «non c’è pace lontano / dalla terra nuda. Non c’è riposo / se il cielo non si vede» (1). Nel caso di Phnom Penh, poi, l’aumento dei colletti bianchi ha fatalmente trasformato la città in un ambiente di burocrati ormai lontani dal sole delle campagne. Anzi, mantenere la pelle “bianca” – non lo sarà mai! – proteggerla dalla luce del sole perché non diventi scura, è ormai una delle loro preoccupazioni. Serve a distinguersi dai figli della terra, appunto! Per questo ogni genere di crema “whitening” ha qui un sicuro mercato. Nello stesso tempo, sono aumentati i locali di intrattenimento notturno quasi a compensare con affetti a pagamento, l’aridità polverosa delle carte maneggiate tutto il giorno. Questi due fenomeni si implicano a vicenda. Da una parte la sostanziale burocratizzazione del legame sociale, dall’altra l’aumento dei locali notturni, a dimostrare che lo «svilimento burocratico della convivenza (…) incoraggia la regressione pura e semplice al (…) rapporto erotico come scenario virtuale di ogni possibile relazione umana» (2). Sono pensieri che seguono il mio sguardo quando visito i nostri ex-studenti a Phnom Penh. Per l’amor di Dio, hanno tutti un lavoro, molti hanno una famiglia. Ne apprezzo le competenze e il successo. E nondimeno, sono preoccupato per il prevalere di una logica tipica delle città che fa di tutto un grande mercato. Burocratizzazione, erotizzazione, deriva utilitaristica per cui da ogni cosa bisogna trarre un profitto. È una logica, un’atmosfera. Che disprezza la pelle scura, percossa dal sole. Che disdegna la fatica fisica, perché riguarda i poveri. Che genera classi sociali, vere e proprie caste, con corsie preferenziali, in mondi separati da alte mura e guardie al cancello. Non c’è più un destino comune. Émile Zola, nel suo Il ventre di Parigi, che è il ventre di ogni città, ben descrive questi processi urbani. «Sentì allora in tutta la sua forza il lungo rombare dei mercati. Parigi masticava i bocconi dei suoi due milioni di abitanti. Era come un grande organo centrale che batteva furiosamente… Era un movimento incessante di mascelle colossali, un baccano d’inferno, un brusio senza fine dove si fondevano tutti i rumori dell’approvvigionamento …». Beninteso, sono processi inevitabili, accelerati dalla digitalizzazione di tutto. Eppure sento, impotente, che allontanarsi dalla Terra e da ciò che gli attiene, dal valore del tempo, dalla dignità della fatica fisica e dall’esperienza di un destino comune, significa fatalmente allontanarsi anche dal Cielo. Lasciando allo strapotere asettico e pervasivo della merce e alle chiacchiere dei Media, di inaridire i nostri cuori e diffondere ovunque una preoccupante, irreversibile denatalità. Indotti dal «rombare dei mercati» a vivere sempre di corsa, rischiamo di stare al mondo come separati in casa. «Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo? – viene da chiedersi con il poeta T. S. Eliot -. Dov’è la saggezza che abbiamo perduto sapendo? (…) più lontani da Dio e più vicini alla Polvere». Che fare, dunque? Non lo so, se non attingere ad un linguaggio nuovo. Che già pre-sento: «in un fuoco di petali», «comincia a parlare la lingua casta dei fiori» (3) eco del Verbo di Dio per mezzo del quale e nel quale tutto è stato fatto.   1. M. Gualtieri, Le giovani parole, Torino 2015, 11. 2. P. Sequeri, «La spiritualità nel post-moderno», in Il Regno-attualità 18/1998, 641. 3. M. Gualtieri, Le giovani parole, 16.

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