Nel Darjeeling, ai piedi dell’Himalaya, la Chiesa aiuta i tribali a sottrarsi allo sfruttamento nelle piantagioni. Parla monsignor Aind, vescovo di Bagdogra, dove il Pime ha aperto una nuova parrocchia
Il chai è un elemento fondamentale della vita quotidiana in India. Intorno a un bicchiere di chai, – il tè -, nel Paese che è il secondo produttore delle pregiate foglie al mondo ci si riunisce in casa o ci si ferma lungo le strade per una pausa rinfrescante davanti a un venditore ambulante. Ma la bevanda più popolare dell’India porta anche migliaia di persone lontano dalle proprie terre d’origine in cerca di lavoro nelle piantagioni del Darjeeling, il distretto nella regione del Bengala Occidentale famoso proprio per la qualità del suo tè. È la storia di quasi tutti i 59 mila cattolici della diocesi di Bagdogra, che si estende tra le verdissime colline ai piedi dell’Himalaya, i cui fedeli sono al 99% adivasi, ossia tribali, originari della zona di Chota Nagpur e migrati qui tre o quattro generazioni fa.
Oggi, però, l’industria del tè sta smentendo tutte le sue promesse di prosperità, come racconta il vescovo monsignor Vincent Aind: «Le compagnie produttrici non navigano in buone acque, le piantagioni chiudono e, quando restano aperte, i lavoratori non vengono pagati regolarmente. E rischiano di finire in miseria». La denuncia di monsignor Aind è ampiamente documentata. La ricerca internazionale “The global business of forced labour”, realizzata nel corso degli ultimi due anni dall’Università di Sheffield insieme a vari partner tra cui l’Organizzazione internazionale del lavoro, ha dimostrato che non solo gli impiegati nell’industria indiana del tè sono sistematicamente sottopagati, ma anche che spesso non hanno accesso ad acqua potabile e servizi igienici, che dovrebbero essere loro garantiti per legge. A provvedervi, secondo il Plantations Labour Act risalente al 1951, dovrebbe essere il proprietario delle piantagioni, tenuto anche a fornire servizi sanitari e istruzione, oltre a un alloggio decente. Un miraggio, in realtà, per la maggior parte dei lavoratori – tra cui molte donne -, i quali peraltro, generalmente, non conoscono nemmeno i propri diritti né, eventualmente, sanno come rivendicarne il rispetto.
«Il rischio è che questa gente, esasperata, decida di emigrare altrove, recidendo un’altra volta le proprie radici senza alcuna garanzia di trovarsi in una condizione migliore», afferma il vescovo di Bagdogra. «Ecco perché, come Chiesa, ci stiamo impegnando in vari modi ad aiutare questa gente a trovare alternative di vita dignitose qui».
La diocesi, che comprende venti parrocchie molte delle quali rurali, è caratterizzata da un mix culturale, etnico e religioso: «Siamo un crocevia di flussi umani, a causa della vicinanza di diversi confini. Pochi chilometri a sud c’è il Bangladesh, a nordovest il Nepal e a nordest il Buthan, e anche la Cina non è lontana». Se gli indù costituiscono il 60% della popolazione, c’è anche un 11% di musulmani, mentre i cristiani di tutte le denominazioni e i buddhisti si aggirano rispettivamente intorno al 7%. E poi ci sono sikh, giainisti, animisti.
Un contesto plurale in cui i cattolici, che sono una minoranza sia religiosa che etnica, faticano a consolidare la propria identità e a ritagliarsi un ruolo sociale. «Una delle priorità d’azione, dunque, è il rafforzamento socio-culturale a partire dall’istruzione», spiega il vescovo indiano, nato 65 anni fa a Kalchini. «I ragazzi hanno tassi di abbandono scolastico molto alti.
Le loro famiglie non possono permettersi di mandarli nelle scuole private, in cui la qualità dell’insegnamento è migliore, e si accontentano di quelle statali, dove la frequenza e i libri sono gratuiti. Il problema è che lì gli studenti non imparano nulla e si trovano quindi impreparati per i gradi di istruzione successivi. Ecco perché, nelle nostre parrocchie, abbiamo istituito tredici centri doposcuola, con insegnanti volontari per tutte le materie, dove educhiamo i ragazzi, oltre ai valori morali fondamentali, anche in altri settori chiave per farne dei cittadini consapevoli: dall’attenzione all’ambiente alle norme igieniche di base.
Attraverso varie attività creative, poi, aiutiamo ciascuno a scoprire e sviluppare i propri talenti».
La diocesi, che gestisce decine di scuole di tutti i gradi, organizza anche i “Parlamenti dei bambini”, dove i piccoli imparano a discutere dei temi che riguardano le loro vite, così come giornate dedicate alla piantumazione di alberi nei villaggi, per sensibilizzare le comunità, cristiane e non solo, all’importanza di contrastare l’erosione del suolo causata dall’estrazione di sabbia dal letto del fiume. «L’obiettivo è che i più giovani diventino testimoni di nuovi stili di vita sostenibili e influenzino positivamente anche le loro famiglie e i vicini, per esempio creando delle “plastic free zone”, dove la plastica monouso è bandita». Tutto questo per «rafforzare la motivazione dei ragazzi e permettere loro, una volta cresciuti, di avere opportunità alternative rispetto all’emigrazione o alla vita misera dei loro genitori».
La Chiesa, naturalmente, non dimentica neanche questi ultimi. Racconta monsignor Aind: «Per garantire un reddito a chi è in difficoltà, concediamo dei prestiti a piccoli gruppi di donne o uomini che organizzano semplici attività produttive, per esempio affittando della terra e coltivandola, per poi venderne i prodotti». Oltre alla povertà, c’è un’altra emergenza sociale per cui la diocesi si sta mobilitando: «Siamo molto preoccupati per l’alto grado di dipendenza dall’alcool che riguarda soprattutto gli uomini, i quali finiscono per rovinare se stessi e le loro famiglie. Abbiamo quindi chiesto aiuto a una congregazione belga i cui membri sono formati proprio per affrontare diversi tipi di dipendenze e una loro delegazione dovrebbe raggiungerci nei prossimi mesi, per creare dei progetti ad hoc».
In tutte queste sfide, naturalmente, il Vangelo resta il primo riferimento. E «rafforzare la fede dei nostri parrocchiani» una priorità per il pastore di Bagdogra. «Abbiamo più di seicento catechisti di villaggio: per loro, e per i leader delle comunità cristiane, che sono cinque per villaggio, organizziamo seminari e laboratori mensili di formazione». Il ruolo dei laici è fondamentale nell’azione pastorale: «Loro conoscono la gente meglio di noi preti, sono in contatto quotidianamente con i fedeli e con i non cristiani».
La formazione delle comunità passa anche attraverso incontri sulla conoscenza della Bibbia, nonché su «questioni sociali ed economiche, affrontate alla luce della Parola di Dio». Per i più giovani c’è il catechismo una volta alla settimana, mentre un occhio di riguardo è riservato alle ragazze. «Esiste un’organizzazione cattolica femminile – racconta monsignor Aind – che propone, oltre a incontri di preghiera e seminari, progetti di coscientizzazione. Spesso le donne sono la fetta di società che porta sulle spalle il peso di più responsabilità, dall’educazione dei figli alla gestione economica della famiglia. E, nonostante tutti questi impegni, qualunque proposta facciamo sono loro a rispondere di più».
Di fronte a tante prove, le forze della Chiesa sono adeguate? «Abbiamo un certo numero di vocazioni, ma potrebbero essere migliori a livello di numeri e di qualità», ammette il vescovo. «Per questo investiamo molto nella formazione spirituale e culturale dei ragazzi che mostrano interesse alla vita sacerdotale, mentre cerchiamo di preparare i seminaristi a operare in un contesto complesso come quello dell’India di oggi». In cui cresce, tra l’altro, il fondamentalismo a matrice indù. «Se qui queste tensioni non sono forti come in altre zone del Paese, siamo consapevoli che c’è chi continua a fomentare l’odio e cerchiamo di contrastarlo attraverso azioni di base positive, che rafforzino le relazioni tra cittadini di diverse fedi».
Da qualche mese, forze fresche per la “vigna” della diocesi di Bagdogra sono arrivate dal Pime, a cui il vescovo ha affidato una nuova parrocchia a Kharubhanga. L’amicizia di monsignor Vincent con l’Istituto italiano risale agli anni della sua giovinezza a Jalpaiguri, diocesi fondata proprio dai missionari del Pime, ed è sempre rimasta viva. Così, dopo la sua nomina a vescovo cinque anni fa, il prelato ha lanciato una forma di collaborazione con i giovani seminaristi indiani dell’Istituto, che da allora, nel corso della loro formazione, trascorrono un anno di impegno pratico nelle parrocchie della diocesi.
Un esperimento positivo, che ha spianato la strada al passo di oggi. «La nuova parrocchia copre il territorio di nove villaggi dell’interno, circondati solo da piantagioni di tè e boscaglia, da cui la gente deve camminare sette-otto chilometri per raggiungere la scuola e qualunque servizio, e dove per i fedeli, fino ad ora, era molto difficile poter partecipare a una Messa. Adesso, avere due sacerdoti a Kharubhanga sarà un grande aiuto, per l’accesso ai sacramenti e la cura pastorale delle 380 famiglie cristiane». Per il neo parroco padre Xavier Ambati e per il giovane padre Prasanth Kumar, poi, ci sarà spazio per il primo annuncio del Vangelo, oltre all’impegno sul fronte educativo e sociale a fianco delle famiglie dei coltivatori di tè. Uno dei primi progetti in cantiere è una scuola tecnica che permetta ai ragazzi di accedere a nuove opportunità professionali. Così da sperimentare che, anche nel Darjeeling, ci può essere vita oltre le verdi piantagioni di chai.