Il racconto del direttore di Mondo e Missione dal Bangladesh, dove ha trascorso la Pasqua con i cristiani locali: «Mai come qui ho percepito la realtà di una comunità cristiana che coniuga così efficacemente il culto, la liturgia e le attività pastorali all’azione sociale e alla carità quotidiana e silenziosa»
da Dhaka, Bangladesh
Cinque giovani poliziotti ci accolgono con larghi sorrisi e saluti all’ingresso della chiesa di santa Cristina a Dhaka, Bangladesh, non lontano dal Parlamento per la veglia del sabato santo. Il luogo di culto, uno dei pochi in città di una certa dimensione, si riempie di giovani e famiglie. Si fatica a trovare un posto a sedere. Per quasi tre ore 700 persone cantano e pregano con discrezione e partecipazione. Nonostante la presenza delle forze dell’ordine, non si direbbe della tensione che si respirava fino a pochi mesi fa in questa megalopoli di 17 milioni di abitanti con l’uccisione di intellettuali locali e di diversi stranieri; in particolare la notte tra il primo e il due luglio 2016 al ristorante Holey Artisan Bakery, nel quartiere diplomatico di Gulshan, quando ventidue vittime civili, tra cui nove italiani, furono trucidati da militanti islamisti.
In realtà la minaccia rimane nell’aria, ma l’ex direttore della Caritas nazionale, Benedict Alo D’Rozario, è tutto lodi per il governo e la polizia che, a suo dire, stanno gestendo la situazione in modo convinto e determinato a chiudere il contenzioso una volta per tutte. Un attacco ai cristiani in questo Paese sarebbe in effetti un affronto ingiustificato ad una comunità di meno di mezzo milione di persone (su 180 milioni), che sono doppiamente minoranza: dal punto di vista religioso, ma anche, molti di loro, per l’appartenenza etnica a gruppi indigeni e tribali da sempre emarginati. La chiesa di Santa Cristina, ma anche quella di Gesù Lavoratore, che raggiungiamo il giorno di Pasqua nel complesso industriale EPZ (Export Processing Zone) di Zirani, si riempiono di ragazzi shantal e orao da Dinajpur e Rajshahi , nel nord, mandi dall’est nel distretto di Mymensingh, e poi i garo e tanti altri dalla fattezze di volta in volta più indiane o cinesi.
Sono tra i giovani che hanno lasciato a milioni le campagne per la capitale bengalese, dove le grandi compagnie internazionali hanno trasferito l’industria tessile, ma anche dei cosmetici, dei mobili, della ceramica, dei componenti elettronici… Il Bangladesh quasi non aveva concorrenti in questo campo fino alla tragedia del 24 aprile 2013 a Rana Plaza, a Dhaka, quando un intero edificio è crollato sulle giovani operaie ai telai facendo oltre mille morti. La pressione internazionale da allora ha portato a maggiori controlli e garanzie sulle condizioni di lavoro e della sicurezza, ma in questo modo anche ad un certo aumento dei costi di produzione. Con il risultato che l’India, il Pakistan a la Cambogia ora sottraggono commesse alle fabbriche del Bangladesh.
Gli orari di lavoro comunque rimangono lunghi concedendo, e non sempre, solo il venerdì (riposo musulmano) a sé stessi e alla famiglia. A Zirani la missione è lì per questi giovani. Il pioniere è padre Sandro Giacomelli del Pime che, dopo aver speso una vita nelle campagne del nord attorno a Dinajpur, verso il 2005 scende a Dhaka a cercare i suoi ragazzi che rischiano di perdersi tra le fabbriche e gli alloggi precari, gli orari impossibili e le difficoltà di comunicazione con i luoghi di origine. Li raccoglie, li consiglia, li aiuta, quando è il caso li prepara al matrimonio, li cura se si ammalano. È la preveggenza di un anziano valtellinese, che vede il mondo cambiare e decide di cambiare lui stesso: fino al 18 ottobre 2007 quando muore in un incidente stradale proprio sul nuovo campo di lavoro. Oggi la sotto-parrocchia di Gesù Lavoratore offre ospitalità a giovani appena arrivati in città, organizza piccoli asili familiari per i bambini delle coppie che sono tutto il giorno in fabbrica, prepara i giovani al matrimonio e al battesimo dei figli, offre la Messa quotidiana per un piccolo gruppo e l’Eucaristia domenicale anticipata al venerdì. “Ogni sera poi esco ad incontrare gli operai là dove posso trovarli dopo il lavoro”, dice il responsabile padre Gianpaolo Gualzetti.
Mai come in questa Pasqua a Dhaka forse ho percepito la realtà di una comunità cristiana che coniuga così efficacemente il culto, la liturgia e le attività pastorali all’azione sociale e alla carità quotidiana e silenziosa. Nella parrocchia di Mirpur, più verso il centro di Dhaka e da cui dipende anche il sotto-centro di Zirani, i missionari del Pime vivono con un gruppo di giovani in verifica vocazionale, un altro di pazienti che vengono da lontano e trovano alloggio mentre fanno dei controlli e sono in cura in città, una terza comunità di ragazzi disabili per lo più musulmani, che le famiglie portano al pomeriggio per stare insieme, cantare, fare ginnastica e giocare. Le mamme che ci accolgono ci spiegano che i vicini le umiliano ogni giorno chiedendo loro di quale peccato si siano rese colpevoli per aver generato un figlio disabile. Nei locali della parrocchia di Maria Regina degli Apostoli constatano invece che almeno qualcuno non la pensa in questo modo e anziché emarginarle le aiuta. Il dialogo di vita con la comunità musulmana si presenta qui come una testimonianza indiretta e discreta della carità quotidiana più che una proclamazione o un confronto sulla fede o le cose rivelate.
È la stessa sensibilità che ha portato la piccola comunità di Mirpur, soprattutto la scuola e i bambini, a raccogliere ed inviare 480 euro per i terremotati italiani di Amatrice. Le foto del paese distrutto pendono dalla bacheca del salone in cui scorrazzano i bambini disabili il pomeriggio del sabato santo. Ne esco con l’impressione che in 25 anni il Pime ha stabilito in questo enorme quartiere una cosa magari piccola, se rapportata ai bisogni, ma una specie di fontanella, che esiste e a molti permette di abbeverarsi e proseguire il cammino. Poche, piccole e distanti comunità in una città che è come un oceano. In pochi altri Paesi al mondo la Chiesa appare minuta e minoritaria come a Dhaka, ma non per questo intimidita e rinunciataria. Sarà che la Pasqua è sempre un momento di particolare entusiasmo, ma l’impressione è che il messaggio di risurrezione e di vita sia proprio ciò che permette di sopravvivere con dignità più qui che al villaggio, ormai lontano, in cui è stato inizialmente accolto.