Nella città giapponese di Kesennuma, colpita nel 2011 dallo tsunami, trenta donne hanno ritrovato la speranza nel lavoro. Le loro creazioni sono un esempio virtuoso di come si può abbinare solidarietà e business di successo
Un maglione per ritrovare la speranza e il proprio posto nella società. Succede in Giappone, dove le ferite dell’incidente di Fukushima del marzo 2011 sono ancora aperte. L’area più vicina colpita dalla fuga radioattiva resterà inaccessibile per anni, ma anche le regioni limitrofe di Iwate e Miyagi, dove gli abitanti non sono stati evacuati, hanno subito i danni devastanti dello tsunami: morti, case distrutte e infrastrutture danneggiate. Persino nel ricco Giappone, la ricostruzione procede con lentezza. Molte famiglie continuano a vivere in container, che dovevano essere abitazioni d’emergenza.
In questo scenario, il lavoro diventa un fattore cruciale per ridare un futuro a chi ha perso tutto. Nella cittadina portuale di Kesennuma, che ha contato oltre 1360 morti per lo tsunami, dal 2012 è decollato un interessante progetto.
Si chiama Kesennuma Knitting: è una società che produce cardigan e maglioni di altissima qualità, fatti rigorosamente a mano e con filati pregiati, offrendo impiego a donne di diverse età – c’è anche chi ha superato i sessanta – come magliaie. Questa attività non è frutto del caso: Kesennuma era una città di pescatori, in cui c’è una tradizione di riparazione delle reti attraverso il lavoro a maglia. Per le magliaie, che spesso hanno alle spalle una tragedia familiare – dalla perdita di una persona cara a quella della casa e del lavoro – è un’occasione di rinascita. Soprattutto per chi ha un’età avanzata e pochissime opportunità di trovare un’occupazione.
Al vertice di questa azienda, c’è una trentenne che ha saputo coniugare lo spirito di servizio con le regole del marketing, creando dal nulla una piccola azienda di successo. Dopo la laurea all’università di Tokyo, Tamako Mitarai ha lavorato dapprima per McKinsey in Giappone e poi in Bhutan, dove era impegnata in un progetto governativo quando è accaduto il disastro del 2011. Tamako ha sentito il bisogno di fare qualcosa per il suo Paese ed è rientrata in patria, dove è stata coinvolta in questo progetto.
«Abbiamo iniziato con quattro magliaie. Oggi lavorano per noi 30 professioniste, che ricevono un training iniziale di 4-6 mesi. Tutte hanno esperienza di lavoro a maglia fin dall’infanzia, ma vengono preparate per rispettare gli alti standard qualitativi che ci siamo prefissi».
Comprare un cardigan da Kesennuma Knitting significa entrare in contatto con chi ci lavora. «A parte qualche negozio temporaneo e il nostro punto vendita a Kesennuma, la vendita avviene online», spiega Mitarai. «Nel caso di un cardigan su ordinazione, quando la magliaia inizia il lavoro, scrive personalmente – a mano, non via mail – alla cliente per avvisarla. Durante la lavorazione, le invia varie fotografie che attestano l’avanzamento del lavoro. Se invece il prodotto è già pronto, la cliente riceve comunque una cartolina allegata con il nome della magliaia che l’ha lavorato e la possibilità di contattarla. Trattandosi di lavoro a mano, la produzione è limitata: abbiamo solo tre modelli».
Il rapporto personalizzato è un modo di avvicinare chi acquista alla realtà di queste lavoratrici. Attenzione, però: come Tamako ci tiene a specificare, la molla non è solo quella di fare del bene. «La gente apprezza i prodotti e la nostra filosofia, che implica il rispetto del cliente e del lavoratore». Tant’è che ci sono un centinaio di prenotazioni in lista d’attesa. Il prezzo è quello di una griffe: il modello Rhythm-A, per esempio, oltrepassa i 1400 euro. Un proposta solo per ricche signore, quindi? «No, dai commenti che riceviamo i nostri clienti comprano un maglione pensando di poterlo indossare per tutta la vita, perché è un oggetto di qualità, e magari di lasciarlo ai figli». L’esatto contrario della filosofia “usa e getta” imperante nella moda.
Il lavoro alla Kesennuma Knitting ha cambiato la vita delle magliaie. «Ha restituito loro la dignità», commenta Mitarai. «Inoltre, quando lavorano a maglia, i loro cuori si calmano. Ovviamente non è la panacea per tutti i loro problemi: spesso sono tristi quando pensano ai loro cari morti per lo tsunami, o alle case provvisorie in cui ancora vivono. Ma sono contente quando vedono che il loro impegno è apprezzato dai clienti e che possono contribuire, attraverso le tasse, ai bisogni della comunità locale. Rendere felici gli altri offre sempre una motivazione importante alle persone per andare avanti». Ma anche la giovane manager è entusiasta. «Mi sento fortunata a lavorare con persone interessanti come le nostre magliaie. Ed è una bella sfida per me costruire un’impresa che stia in piedi da sola in una piccola città».