«Padre vorrei ricevere il Battesimo, perché mi fa aspettare?». Temevo che le lezioni di catechismo, posticce per causa mia e per la distanza che ci separa non fossero ancora sufficienti, ma qui abbiamo a che fare con una sete del cuore che è sete di Dio
Alcuni giorni fa celebrando l’Eucarestia a Memot, cittadina a pochi chilometri dal confine con il Vietnam, ho toccato il Cielo con un dito. Per la piccola comunità cattolica, fervente e accogliente, per la cappella ben addobbata, con fiori freschi e incenso, ma soprattutto per il Vangelo che la liturgia della V domenica del Tempo Pasquale ci proponeva, un brano dell’evangelista Giovanni nel quale Gesù rivela il suo intimo rapporto con il Padre, «io sono nel Padre e il Padre è in me», e introduce i discepoli in quello stesso mistero di comunione, «nella casa del Padre mio vi sono molti posti» (Gv 14,1-12).
Ho detto alla mia gente che con questa pagina tocchiamo il vertice della teologia, della dottrina, ma anche dell’intimità tra Gesù e il Padre. La fede è piena solo quando quest’intimità divina che Gesù ci ha rivelato, diviene, attraverso lo Spirito Santo, un’opportunità anche per noi. Se nel IV secolo, quando hanno elaborato il dogma trinitario, avessero mollato il colpo e accettato le varie eresie del momento, oggi non saremmo qui a parlare di questa comunione come vero volto di Dio e come possibilità inaudita per noi e tra di noi.
Mai prima, mi sono detto nel viaggio di ritorno, ho intuito come la dottrina, il catechismo, l’astratto linguaggio dei dogmi va preservato perché in questo modo si preserva anche il sogno, quello di un’intimità con Dio impensabile prima di Gesù quando dice, «chi ha visto me, ha visto il Padre», oppure «io sono nel Padre e il Padre è in me».
Spesso la dottrina, il Magistero della Chiesa, fanno solo pensare all’Inquisizione. Se da una parte non mancano fatti che alimentano questa lettura, dall’altra vorrei dare ancora credito ad una delle intuizioni di papa Benedetto XVI e cioè che occorre «un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa» (1). Il dogma, nel suo carattere di rivelazione dall’alto, spinge la ragione a superare se stessa non verso un dogmatismo insignificante quanto verso una profondità nella quale il cuore umano riconosce subito qualcosa di bello per sé. Altrimenti Sivon, una donna di circa 60 anni presente alla Messa, non sarebbe venuta a dirmi, subito dopo, che vorrebbe ricevere il Battesimo, prima possibile!
In occasione dell’ultima Pasqua gli avevo detto di aspettare. E aveva accettato. Ma è tornata alla carica. Forse perché la Parola di Gesù aveva aperto orizzonti inediti. Di una comunione che gli uomini non sanno darsi, tanto più in Cambogia dove sovente anche il legame coniugale è vanificato dall’eccessiva istintualità dei maschi. Lei stessa fu abbandonata dal marito per una più giovane.
Noi persone comuni possiamo sederci gli uni accanto agli altri, possiamo toccarci, abbracciarci. Possiamo anche cercare l’amplesso, ma la prospettiva di Gesù, «io sono nel Padre e il Padre è in me», apre ad un sogno umanamente inedito. Che però possiamo intuire quando per esempio sentiamo le persone care non solo accanto, ma “dentro” di noi. Dunque quella realtà di reciproca inabitazione tra Gesù e il Padre, corrisponde esattamente alla sete del nostro cuore. Proprio come nel Mistero della Trinità per cui il Padre è tutto nel Figlio e il Figlio è tutto nel Padre, distinti e non confusi. Perché la comunione non è confusione, ma distinzione nel massimo dell’amore. E questo è proprio solo del Dio di Gesù.
«Padre vorrei ricevere il Battesimo, perché mi fa aspettare?». Temevo che le lezioni di catechismo, posticce per causa mia e per la distanza che ci separa – Memot è a circa 100 km da dove vivo e ci vado una o due volte al mese – non fossero ancora sufficienti, ma qui abbiamo a che fare con una sete del cuore che è sete di Dio. E il dogma della Trinità, cioè della comunione, probabilmente ha ridestato in quella donna la misura dell’amore che ora sente e vuole. Ha ragione F. O’Connor, i dogmi non sono anacronismi lesivi della libertà e della ragione. Sono piuttosto verità corrispondenti alle esigenze dell’umanesimo. «Il dogma è uno strumento per penetrare la realtà – scrive la O’Connor – forse la sola cosa rimasta al mondo che di sicuro protegga e rispetti il mistero (Dogma is the guardian of mystery)» (2). Dell’uomo e di Dio.
Ho trovato in Dante Alighieri le parole più adeguate per esprimere la sete di quella donna, di una simile comunione tra le persone, e con Dio. A proposito dell’incontro tra Dante e lo spirito di Folchetto di Marsiglia, descritto nel IX Canto del Paradiso (IX, 79-81), il poeta vorrebbe un’intimità, una comunione tale da auspicare di entrare nel “tu” di Folchetto, «s’io m’intuassi», e Folchetto nell’“io” di Dante, «come tu t’inmii».
Come Gesù, «io sono nel Padre e il Padre è in me». Solo questo corrisponde ai «disii» di quella donna, impaziente di essere battezzata, cioè di «intuarsi» nel “tu” di Dio. Con Cristo, come Cristo. Solo una simile ricchezza giustifica la missione. Solo una simile “dottrina” salva il mondo!
- BENEDETTO XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni. Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12 settembre 2006.