Il settantunenne sindaco di Davao è il favorito nei sondaggi nelle elezioni del 9 maggio. E la sua immagine da «sterminator» contro la piccola criminalità sembra non essere stata scalfita nemmeno da una battuta sconcertante sullo stupro di una missionaria laica pronunciata in un comizio
Le Filippine si avviano al voto per le presidenziali e amministrative del 9 maggio con una candidatura quanto mai controversa ma al momento vincente.
Ci aveva provato l’ex attore con ruoli da “duro” Joseph Estrada durante il suo mandato (30 giugno 1998 – 20 gennaio 2001) ridotto per l’impeachment dovuto allo scandalo per corruzione portato allo scoperto e perseguito con il ruolo concreto della Chiesa cattolica. Puntare sulla “pulizia” del Paese, a partire dai livelli più bassi della criminalità spicciola (e ignorando per quanto possibile il ruolo che nella violenza diffusa e anche nell’assuefazione dei filippini ha un vasto mondo di connessioni e malaffare legati alla politica e agli interessi di potere sul territorio) può pagare in campagna elettorale. Estrada però ne aveva fatto una locandina da film di serie B; Rodrigo Duterte è di un’altra pasta: all’immagine di intransigente gestore dell’ordine e di sciupafemmine nonostante famiglia e prole, lui vuole unire quella di “sterminator”, con un programma che più che obiettivi politici, sociali ed economici mira finora a far fuori 100mila criminali a mo’ di esempio. Forse anche di monito verso gli oppositori. Comunque sia, i miti filippini, insofferenti verso una criminalità micro che ne segna la vita e una macro che ne determina l’esistenza, tendono ora a dare a Duterte il credito necessario per risolvere almeno la prima. Come credenziale 1.424 omicidi che i gruppi per i diritti umani gli attribuiscono indirettamente e di cui lui nega la paternità ma difende la necessità.
Il “punitore” ha un linguaggio diretto, anche volgare. In lui – per 22 anni quasi ininterrotti sindaco di Davao, metropoli del Sud filippino e a suo modo città di frontiera – non c’è spazio per bizantinismi e correttezza politica. Anzi, coltiva il proprio mito delle ronde contro i cartelli della droga insieme a poliziotti e vigilante da lui prezzolati, di esplorazioni in incognito nelle aree infestate dai criminali con la pistola al fianco e la speranza di essere spinto a usarla, di mediatore nelle trattative per la liberazione di ostaggi della malavita comune o della militanza armata. «Non lascerò che droga e criminalità distruggano il mio Paese, non posso accettarlo», ha confermato più volte Duterte.
Da un lato puntando sulle statistiche che indicano come i crimini denunciati nel paese siano cresciuti di cinque volte dal 2012 arrivando a 1.161.000 nel 2014, dall’altro ignorando che le ragioni della criminalità e anche la sua percezione e denuncia sono nell’abitudine della politica a ignorare le cause dei problemi. Un atteggiamento che spiega anche perché la maggioranza dei filippini percepisca una povertà crescente, quotidiana per le famiglie, nonostante la crescita economica accelerata degli ultimi anni e l’emigrazione ufficialmente incentivata che “tiene” anche in un tempo di pesante congiuntura internazionale.
Duterte sarebbe ora tra sette e 12 punti in vantaggio del rivale più accreditato, Grace Poe, senatrice imprenditrice e filantropa a sua volta figlia adottiva di attori, e di Manuel Roxas, nipote di un ex capo dello Stato sostenuto dal presidente uscente Benigno Aquino III.
Al momento, il 71enne candidato in testa ai sondaggi ha incassato con scarse perdite di consensi anche le ampie critiche nazionali e internazionali per il suo primo passo falso. In un discorso pubblico ha infatti ricordato lo stupro da parte di un gran numero di detenuti in rivolta nel carcere della sua città di una missionaria laica australiana nel 1989. Ma – essendo la donna molto bella – ha anche ironicamente lamentato di non essere stato il primo tra quanti ne abusarono, quasi a rivendicare un diritto acquisito come «primo cittadino». Una battuta in linea con il suo stile, ma che ha fatto alzare qualche sopracciglio in ambienti che avevano dimostrato finora tolleranza nei suoi confronti. Non si conosce il risultato del dialogo tra Duterte e il gruppo carismatico Al Shaddai che nelle Filippine conta milioni di aderenti compatti nel votare secondo le indicazioni del loro leader; ma padre Amado Picardal, sacerdote che ha documentato gli omicidi extragiudiziari a Davao, resta convinto che il candidato ora favorito alla presidenza consideri gli omicidi mirati un toccasana per la società filippina.