Nadeesha Uyangoda, 27 anni, ha radici srilankesi ma vive in Brianza fin dall’infanzia e si sente italiana anche se con la pelle scura. E in un nuovo libro a metà strada tra un saggio e un memoir racconta i pregiudizi che ancora esistono nel nostro Paese nei confronti di chi è italiano e nero
Era il 1890 e un’inchiesta del Congresso degli Stati Uniti sull’immigrazione stabiliva che gli italiani non erano propriamente bianchi, bensì una via di mezzo fra bianchi e neri. In particolare, erano gli italiani del sud a essere presi di mira, rei di essere troppo vicini all’Africa e, chissà, forse con un po’ di sangue africano nelle vene. Oggi sappiamo che tutto quello che per secoli è stato raccontato per giustificare qualsiasi genere di razzismo era fondato su una grande bugia. Al di là delle sfumature della nostra pelle, noi Sapiens veniamo tutti dall’Africa. E condividiamo talmente tanto Dna che non ha alcun senso parlare di razze. Ricordarlo fa sempre bene.
A citare l’aneddoto storico sugli italiani e sul modo in cui si era percepiti per il nostro aspetto fisico e il colore della pelle è Nadeesha Uyangoda, 27 anni, autrice del libro L’unica persona nera nella stanza (66th and 2nd, 15 euro), in libreria dal 4 marzo. È a metà fra un saggio e un memoir: raccoglie le esperienze personali di questa giovane con radici srilankesi e il suo lavoro di ricerca da autrice freelance sul tema della razza. Ed è un contributo interessante per riflettere sull’identità, su cosa significa essere italiano e nero, sui pregiudizi che condizionano il comportamento di chi, bianco, è nato e cresciuto in un Paese storicamente popolato da bianchi, che negli ultimi decenni è diventato sempre più multiculturale grazie alla presenza degli immigrati, delle seconde generazioni e anche di tanti ragazzi adottati dalle famiglie italiane in ogni angolo del mondo.
Nadeesha Uyangoda stravolge ogni stereotipo sugli immigrati. È cresciuta in Brianza e si sente lombarda e italiana. «A essere sincera, sono più italiana che italo-srilankese», ci tiene a sottolineare. «Quando sono arrivata all’età di sei anni e mezzo non conoscevo una parola d’italiano, ma per volere di mia mamma mi sono iscritta in seconda elementare. E ho imparato molto in fretta».
Lontane da comunità di connazionali immigrati, Nadeesha e sua madre hanno privilegiato la cultura italiana, si sono ambientate perdendo in parte la lingua e le tradizioni del loro luogo d’origine. «A eccezione di qualche piatto di cucina srilankese, che mia mamma prepara una volta al mese, ma poco speziato». Dopo il liceo classico, Nadeesha si è iscritta a giurisprudenza, ha un compagno dalla pelle chiara ed è un’italiana qualsiasi. A parte il passaporto: perché conquistare la cittadinanza è un’impresa anche per chi, come lei, si sente italiana da sempre.
Esiste il razzismo in Italia, a suo parere?
«Sì, ed è legato alla cittadinanza. È cittadino solo chi nasce da genitori italiani, conta il sangue. Durante il fascismo, fu stabilito che i figli di padri italiani e madri africane non potessero essere italiani. In molti casi, per i loro discendenti è una questione ancora aperta. Il razzismo negli Usa è figlio della segregazione, in Europa del colonialismo, che qui è considerato come qualcosa che non ci riguarda, perché è avvenuto fuori dall’Italia. Oggi assistiamo a un aumento degli stranieri e delle seconde generazioni. Le persone afro-discendenti chiedono più attenzione verso la storia coloniale italiana ed europea. Sono tanti gli immigrati che provengono da zone del mondo influenzate dalla storia coloniale».
In Italia la parola “nero” è per lo più associata a persone di origine africana. Lei la utilizza in modo diverso.
«La parola che mi definisce è nera. Il termine “di colore” è stato usato per molto tempo come neutro, politically correct. “Negro”, che in inglese è stato usato dai movimenti per i diritti civili, in italiano ha un’accezione negativa e offensiva. Nel mondo anglosassone le persone provenienti dall’Asia come me sono “brown”, marroni, ma in italiano questo termine non esiste. Anche se “nero” si riferisce a persone di origine africana, per me lo è chi ha la pelle scura e proviene dall’Asia o anche dal Sud America».
Lei scrive di essere un perfetto esempio di assimilazione: al di là dell’aspetto esteriore, si è allineata in tutto alla cultura bianca. Eppure la razza ha continuato a perseguitarla. Perché?
«Sono cresciuta in un ambiente bianco e questo ha condizionato il mio carattere. Forse, all’interno di una comunità singalese, sarebbe stato differente, perché gli altri avrebbero avuto esperienze simili alla mia. Invece ho dovuto scoprire di essere diversa, non perché mi sentissi tale, ma perché gli altri mi percepivano così. Anche se io mi sentivo italiana come chiunque altro. Se sei straniero, sei diverso. E se hai la pelle scura, ancor di più, perché c’è un accumulo di discriminazioni».
“Come parli bene italiano!”: questa è una frase che la irrita particolarmente.
«Sì, perché mi viene detta solo perché ho la pelle scura. Come anche: “Devi essere fiera, hai una laurea e puoi aiutare il tuo Paese”. La mia idea di Paese e quella di chi mi parla non è la stessa. Non sopporto poi quando mi presento in un ufficio pubblico, mi guardano e mi danno del tu: è odioso e maleducato».
Lei sostiene che in Italia che c’è confusione fra integrazione e assimilazione. Cosa intende?
«Spesso si dice integrazione, ma si intende assimilazione. Si dice: “Sei integrato: ti comporti come un italiano”, ma questa è assimilazione. Essere integrati significa mantenere due culture, due lingue, sentirsi a proprio agio portando anche il bagaglio culturale della terra d’origine, propria o della famiglia. Non succede a tutti: molti sono spinti verso l’assimilazione».
Cosa significa essere “l’unica persona nera nella stanza”, come recita il titolo del libro?
«È una posizione scomoda. Sono stata ovunque l’unica persona nera nella stanza e gli altri vedono in prima battuta il colore della tua pelle. Ti chiamano per parlare di diversità, immigrazione, razzismo. In certi ambiti, fortunatamente, qualcosa si muove: ci sono musicisti, artisti neri. Mi piacerebbe vedere persone nere anche nella politica, nel giornalismo, nella cultura».
Guardandosi allo specchio, come si vede?
«Non mi sono mai sentita fuori posto, né ho avuto problemi con la mia carnagione. Ma so che i canoni vigenti sono plasmati sull’idea occidentale di bellezza. Questo si nota anche nelle comunità d’origine degli immigrati. In Sri Lanka, chi è più chiaro è privilegiato rispetto a chi è più scuro. È il colorismo, una discriminazione basata sul colore della pelle. In vari Paesi, tante persone sono spinte a usare creme sbiancanti, o a sottoporsi a interventi chirurgici per avere occhi più tondi o un naso meno piatto».
Il suo compagno ha la pelle chiara. Qual è la sua esperienza come parte di una coppia mista?
«Siamo oggetto di sguardi, perché non siamo la normalità. E spesso suscitiamo curiosità, ci rivolgono domande. In famiglia, invece, non abbiamo mai avuto alcun problema, né da parte di mia madre, né dei genitori del mio compagno».
Esiste anche un razzismo al contrario, una non accettazione dell’italiano come compagno del proprio figlio o figlia?
«Sì, può succedere. Un mio amico ha portato la sua compagna italiana in Sri Lanka ed è stato criticato dai familiari. È una questione di cultura patriarcale: vige il pregiudizio che una donna bianca sia di facili costumi, che non sia vergine e che quindi sia bene non sposarla».
Nel libro scrive di essere giunta alla conclusione, a un certo punto, di “non essere abbastanza nera per i neri e abbastanza bianca per i bianchi”.
«È una frase comune fra gli italiani di colore di seconda generazione. Riflette la sensazione di essere in bilico fra due mondi, di non appartenere veramente a nessuno. Si è stranieri per gli italiani bianchi, ma lo si è anche per la propria famiglia d’origine. Credo che la mancata cittadinanza accentui questo fenomeno. Se avessi il passaporto italiano, sarebbe più facile per me. Per tutti i giovani di origine straniera ma nati o cresciuti in Italia è importante che questo nodo venga risolto».