Le attese e le speranze della gente comune in vista delle prossime elezioni generali in Myanmar. Con la certezza di un cambiamento ormai vicino.
Aveva già vinto le elezioni del 1990. Subito costretta agli arresti domiciliari, dovette rassegnarsi alla prepotenza dell’oligarchia militare allora e tutt’ora al potere, ma nelle prossime elezioni generali dell’8 novembre 2015, è di nuovo la favorita: Daw Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 e leader del NLD (Lega Nazionale per la Democrazia).
“La Signora”, pseudonimo spesso usato dai Media, e dai suoi connazionali per il fatto che il suo nome e la sua storia non sono in patria “politicamente corretti”, incarna la speranza di molti birmani che nutrono per lei un’indubbia devozione: “Sono fiero di avere una leader come lei”, mi sussurra uno studente. A pieno titolo può essere considerata l’unica alternativa all’oligarchia militare che comanda il Paese dal 1962, anche se la Costituzione del 2008, con una norma definita contra personam non le consente di rivestire incarichi di governo. Potrà farlo attraverso i suoi parlamentari se riuscirà ad aggiudicarsi un numero di seggi sufficienti su un totale di 664. Impresa non facile perché la stessa Costituzione assegna di diritto il 25% dei seggi ad alti ufficiali, rappresentanti dell’esercito e al USDP (Union Solidarity and Development Party), braccio politico della giunta al potere, alla quale bastarebbe solo un altro 26% dei seggi per garantirsi la maggioranza nella scelta del prossimo presidente. Cammino in salita, quindi, per la Signora, e se anche la Costituzione rema contro, si respira la certezza che ce la farà.
Le parole d’ordine sulla bocca di tutti in questi giorni sono “free and fair election”, nonostante siano molti i timori che accada esattamente il contrario. Attraverso il Ma Ba Tha (Commitee for Protection of Nationality and Religion), il governo cerca la complicità di una frangia minoritaria del monachesimo buddista, in chiave nazionalista, con lo scopo non dichiarato di favorire la razza birmana già piuttosto invisa ai restanti e numerosi gruppi etnici che formano il Myanmar. Certo nazionalismo, infatti, non è propriamente tale, ma è piuttosto l’ideologia dell’etnia birmana al potere, a fronte di un Paese variegato e plurale dove coesistono almeno 135 etnie diverse.
La gente comune è preoccupata. Persino l’ultima pesante stagione delle piogge potrebbe favorire il partito al governo. Molti giovani che per lavoro risiedono lontani da casa, non potranno raggiungere le loro abitazioni di origine per votare. Il trasferimento dei nomi e la registrazione presso altre liste elettorali, che dovrebbe essere già avvenuta, rimane quanto mai complessa e tutto diventa occasione per compromettere potenziali voti destinati all’opposizione. Nel caso di registrazioni correttamente avvenute, queste spariscono e nel frattempo il funzionario di turno si limita ad un laconico “non so!”. V’è ancor meno possibilità e speranza per il voto dei birmani residenti all’estero, considerati simpatizzanti dell’NLD.
A questo si aggiungono gli scontri tra esercito birmano e milizie etniche indipendentiste, specialmente negli stati Kachin a nord e Shan a est, che non solo rendono instabile il territorio, ma scoraggiano anche qualsiasi spostamento in vista delle elezioni. La gente comune è comunque convinta che le numerose etnie e le fazioni ribelli potranno trovare un accordo solo se a vincere alle urne sarà il partito di Aung San Suu Kyi. Il loro voto è per la Signora, anche se l’equilibrio tra le varie fazioni, a motivo dei loro interessi, sarà presto un problema.
Sono più di trenta milioni i cittadini chiamati alle urne e più di 80 i partiti politici in corsa. Quest’ultimo dato sembra un numero spropositato in un Paese tutt’altro che democratico. Anche in questo caso, la confusione è la prima arma di chi vuole rimanere al potere. Molti dei partiti in corsa infatti sono sovvenzionati dal governo stesso per creare confusione e inutile antagonismo tra le parti. L’amnistia concessa a quasi 7000 detenuti lo scorso luglio, non ha significato la liberazione di prigionieri politici, quanto il ritorno alla libertà di persone che ora sono disponibili a restituire il favore al governo creando, se necessario, instabilità e confusione a vantaggio della giunta militare al potere.
La gente comune comunque è certa che se ci saranno elezioni “libere e giuste”, il partito di Aung San Suu Kyi vincerà. Si tratterebbe della prima partecipazione del NLD al voto dopo la vittoria non riconosciuta nelle elezione del 1990. L’opposizione gode dell’appoggio di molti, le bandiere del partito sono liberamente issate, esposte e attaccate agli autoveicoli. Il governo teme di perdere, e se ciò accadrà vi potranno essere ritorsioni e azioni violente per tentare il tutto per tutto e questo potrebbe scatenare una guerra civile. La storia moderna del Myanmar conosce solo repressione violenta di fronte a qualsiasi istanza di cambiamento. Con un’oligarchia al comando che ha sempre preferito i fortune-tellers alla possibilità di un’adeguata intelligenza politica.
Nel giorno stesso delle elezioni è bandita ogni forma di propaganda o esposizione di simboli di partito. Molti temono che in caso di sconfitta il partito di governo abbia già pronte migliaia di magliette rosse con i simboli dell’opposizione per altrettanti falsi militanti pronti a intervenire e inscenare tafferugli per compromettere il risultato finale e generare false accuse agli eventali vincitori. Sarà importante la presenza, si spera “free and fair”, degli osservatori internazionali, inviati all’uopo per vigilare che le operazioni di voto si svolgano correttamente. I simboli dell’opposizione sono il colore rosso, la stella e il pavone. Quest’ultimo simbolo, dalla fine degli anni ’80, rappresenta il legame tra l’NLD e il movimento studentesco, allora incipiente e più volte soffocato con la violenza, ma che a quel tempo convinse la Signora a entrare in politica.
Il Paese attende un cambiamento radicale all’interno, e una maggiore emancipazione dall’esterno, specialmente dai vicini più forti, invadenti e avidi di risorse come la Cina. Che il cambiamento sia già in atto lo dice un dato per tutti, il mercato della telefonia mobile, ottimo indicatore di tendenze, in Myanmar come altrove. Fino al 2010, infatti, acquistare a Yangoon una semplice sim card per un servizio di telefonia mobile costava circa 2000 dollari americani. In quel tempo i provider erano solo due e di parte: l’MPT (Myanmar Post and Telecomunication) facente capo al governo e l’CDMA – 450 o 800 (Code Division Multipol Access, il numero indica la frequenza in MHz) di proprietà dei militari. Si sono poi aggiunte due compagnie private, la Telenor norvegese e l’Ooredoo del Qatar. Risultato: il prezzo di una sim card è precipitato a 1500 Kyatz, circa un euro. In meno di 5 anni. Tutto ha dell’incredibile. Assistiamo ora a una massiccia diffusione di smart phone e a una conseguente presenza dei cittadini sui social network. L’obiettivo, entro il 2016, è quello di garantire al 75% della popolazione l’accesso a tali servizi. Ciò significa più comunicazione, più partecipazione, più emancipazione. Più cambiamento. È la strada giusta, con tutti i rischi e i pericoli del caso, in un Paese dove la retribuzione per la mano d’opera ordinaria è ancora inferiore ai tre euro giornalieri.
Se il NLD dovesse vincere, dovrà dimostrare, tanto i leader quanto il popolo, di avere la maturità necessaria per gestire la transizione verso una forma di governo democratico, e rinnovare in ogni ambito le infrastrutture del Paese, tanto esteso quanto ricco di risorse. In mano a pochi.