La Commissione nazionale per le telecomunicazioni ha negato il rinnovo della licenza ad Abs-Cbn, il maggior network televisivo di Manila seguito quotidianamente da oltre 10 milioni di telespettatori. Un altro chiaro segnale del bavaglio imposto dal presidente a chi critica le sue politiche problematiche sul rispetto dei diritti umani
Il 4 maggio, Abs-Cbn – il maggior network televisivo delle Filippine con una media quotidiana di dieci milioni di spettatori – è stato costretto a sospendere le trasmissioni per il mancato rinnovo della sua licenza che più volte il presidente Rodrigo Duterte aveva minacciato di bloccare.
Nonostante la decisione sia giunta ufficialmente dalla Commissione nazionale per le Telecomunicazioni, si tratta di una svolta drammatica nella contesa tra l’emittente e il presidente. E – più in generale – tra i media filippini e un capo dello Stato, che non ha mai dimenticato (e perdonato) il mancato sostegno alla sua, vittoriosa corsa verso la presidenza nel 2016 e le successive critiche verso le sue politiche ritenute illiberali e problematiche sul piano dei diritti umani.
La chiusura delle trasmissioni ha sollevato immediata preoccupazione anche all’estero, con la portavoce del Dipartimento degli Esteri Usa, Morgan Ortagus, che ha espresso la sua preoccupazione per la sorte dell’emittente, nelle ultime settimane essenziale come strumento di informazione sulla diffusione dell’epidemia e sulle strategie e gli strumenti per contrastare la diffusione del Covid-19 nell’arcipelago.
Al di là delle ragioni e del danno intrinseco – con almeno 11mila dipendenti e collaboratori rimasti senza lavoro – la chiusura di Abs-Cbn manda un chiaro segnale ai mass media che hanno finora apertamente mostrato il proprio disaccordo o scetticismo vero la presidenza Duterte, che quattro anni fa ha vinto la maggiore carica del Paese puntando anzitutto sulla promessa di condurre una lotta senza quartiere contro lo spaccio e il consumo di stupefacenti. Promessa che, una volta arrivato al potere, ha mantenuto al costo di migliaia di morti e decine di migliaia di condannati a pene che hanno gonfiato a dismisura una popolazione carceraria già prima ben oltre i limiti tollerati internazionalmente. Se ha portato avanti la lotta alla corruzione e al malaffare, anche questi “mali” persistenti nelle Filippine, il presidente non ha mancato di perseguire a suo beneficio le tradizionali politiche nepotiste e di insabbiare inchieste e procedimenti penali che avrebbero potuto metterne in discussione integrità e leadership.
La “guerra alla droga” è stata accompagnata da frequenti contrasti con le diplomazie straniere, con la Chiesa cattolica e da duri attacchi verbali a capi di Stato e persino al Papa che gli hanno alienato la simpatia internazionale. Sul piano interno, la volontà di ripristinare la pena di morte, di abbassare l’età della detenzione al di sotto dei 15 anni e di perseguire una politica denatalista non hanno significativamente ridotto il sostegno popolare, ma gli hanno inimicato una parte della società civile e sicuramente la Chiesa locale che ha sempre mantenuto un atteggiamento critico verso le sue politiche e tenuta accesa la memoria del suo passato controverso come sindaco della grande città di Davao.
A critiche e pressioni il presidente ha reagito intimorendo o allineando ai propri programmi le principali istituzioni del Paese, estromettendo da cariche pubbliche o incarcerando i suoi oppositori, lasciando ampio spazio alle operazioni e agli interessi dei militari utilizzando anche la “chiave” dell’insurrezionalismo del terrorismo musulmano e della residua guerriglia comunista.
«Si tratta di un giorno buio per la libertà dei media nelle Filippine, che riporta alla mente la legge marziale quando la dittatura prese il controllo dei mezzi d’informazione», ha commentato la fine delle trasmissioni di Abs-Cbn il rappresentante di Amnesty International nel Paese, Butch Olano. Di «vendetta personale di Duterte contro la rete» ha parlato l’Unione nazionale dei giornalisti delle Filippine.