Oggi la proclamazione ufficiale del nuovo presidente. La classe media e bassa lo ha votato in massa perché stanca di vedere la lotta alla corruzione fermarsi sulla porta di casa di compagni di partito ed alleati politici. E adesso da lui si aspetta i fatti dopo le promesse
Il parlamento filippino ha completato il conteggio ufficiale dei voti del 9 maggio e proclamerà oggi il nuovo presidente e vice-presiedente del Paese. Il nome di quest’ultimo era molto incerto e alla fine per un pugno di voti l’ha spuntata la sig.ra Leni Robredo sul senatore Bonbong Marcos, figlio dell’ex-presidente (1965-’86) e dittatore Ferdinand. Il vincitore della più alta carica invece era già chiaro da giorni dal conteggio informale accreditato dalla commissione elettorale. Sarà Rodrigo Duterte, 71 anni, a guidare il Paese per i prossimi sei anni. Il personaggio presenta diverse caratteristiche particolari.
È il primo presidente ad avere un’esperienza politica quasi esclusivamente locale, essendo stato sindaco della città di Davao, terza città del Paese, per circa un ventennio (lui o un familiare quando la legge gli impediva la rielezione). È il primo presidente quindi a venire dall’isola meridionale di Mindanao. Non appartiene alle famiglie politiche tradizionali. È figlio di un immigrato dall’isola di Leyte e di un’insegnante imparentata con i clan tribali locali. Il padre di Rodrigo Duterte è stato ad un certo punto governatore della provincia di Davao quando questa si estendeva su tutta la parte sud-orientale dell’isola. Il futuro presidente ha studiato e praticato la professione forense.
La sua popolarità a Davao è dovuta in larga misura alla capacità di ridurre al minimo le attività criminali e lo spaccio della droga. Il sindaco però è sospettato di aver organizzato o sanzionato gli squadroni della morte, che hanno eliminato circa 1500 piccoli criminali in vent’anni commettendo però anche errori con l’uccisione di innocenti. La commissione governativa per i diritti umani ha sempre avuto Duterte nel mirino, ma senza poter mai produrre prove inconfutabili o scalfirne la popolarità ad ogni appuntamento elettorale.
Il presidente eletto vanta inoltre una certa familiarità e buoni rapporti con i leader dell’insurrezione comunista in atto dal 1968. Il fondatore del partito comunista delle Filippine, José Maria Sison, 77 anni, riparato in Olanda, che è stato suo insegnante a Davao, si è detto favorevole alla candidatura Duterte e aperto a trattative di pace subito dopo l’entrata in carica del nuovo presidente. Questi ha riservato quattro ministeri a personalità di sinistra indicate dal partito comunista. Anche i gruppi separatisti musulmani hanno salutato favorevolmente la candidatura Duterte. La varietà di posizioni e le divisioni al loro interno renderanno tuttavia più difficile il processo di pace, benché il nuovo presidente dichiari di volersi muovere per una riorganizzazione federale dello Stato e quindi più attenta agli interessi locali.
Le mosse di Duterte, già in queste settimane precedenti la presa di possesso ufficiale del palazzo presidenziale di Malacañang il 30 giugno, sembrano andare nella direzione di una lotta tenace alla criminalità e alla corruzione a cominciare dagli apparati governativi e delle forze di sicurezza. Non sarà facile replicare su scala nazionale l’esperienza periferica di Davao. Ma questo sembra essere il motivo che ha indotto quasi il 40% dell’elettorato a votare Duterte: in particolare le tre città principali (Manila, Cebu e Davao) e quasi tutto il centro-sud. Le Filippine sono cresciute molto sotto la presidenza di Beniño Aquino (2010-‘16) e la povertà è stata notevolmente ridotta, ma così la gente sembra aver visto in modo ancora più chiaro che la corruzione rimane massiccia, lo strapotere di poche famiglie evidente, l’opportunismo dei funzionari governativi senza freno. Aquino si è impegnato contro la corruzione, ma si è sempre fermato sulla porta di casa dei suoi compagni di partito ed alleati politici. La classe media e bassa quindi ha votato in massa Duterte e ha bocciato gli altri quattro candidati (Roxas, Binay, Poe e Santiago), tutti politici di lungo corso che non promettevano sostanziali cambiamenti.
Rodrigo Duterte non ha apprezzato il documento pre-elettorale della Conferenza episcopale filippina in cui ha intravisto allusioni alla sua moralità personale e ai suoi metodi sbrigativi nella gestione dell’ordine pubblico. Con il suo stile diretto e assai raramente di facciata non ha esitato a sua volta ad indicare debolezze ed errori della Chiesa promettendo all’occorrenza di rincarare la dose e produrre fatti e prove. Alla luce del risultato elettorale essenzialmente frutto del voto “cattolico” e popolare conviene però alla Chiesa stabilire un rapporto di collaborazione serena con la nuova amministrazione, improntato all’impegno sociale per l’eliminazione della povertà, in collaborazione appunto con il governo e le forze di sinistra da ricondurre gradualmente alla dinamica democratica.
Preoccupano tuttavia proposte che potrebbero produrre più divisioni che risultati come la ripresa delle esecuzioni capitali. Rodrigo Duterte ha fatto anche molte promesse per risolvere questioni da tempo controverse, che a suo parere dovrebbero produrre unità nel Paese, ma potrebbero anche innescare nuove contrapposizioni e conflitti: la traslazione della salma di Ferdinand Marcos (1917-’89) nel cimitero degli eroi come da sempre chiede la famiglia, il federalismo e maggiore autonomia alle aree a maggioranza musulmana, un accordo di pace con l’insurrezione comunista. Ma a quali condizioni e a quale prezzo? «Le Filippine non hanno bisogno di nuove leggi, ma di amministratori più capaci», ha detto in passato Duterte. Ora ha l’occasione di mettere alla prova se stesso e la sua squadra, nella speranza che dia seguito anche alla promessa di abbandonare l’atteggiamento populista e i linguaggio a volte scurrile della campagna elettorale, di non presentarsi più ora come un «messia» ma un vero uomo di stato.