L’ANALISI
Duterte ha decretato la legge marziale a Mindanao (che il parlamento deve approvare) ma non c’è alcuna possibilità di risolvere per via militare problemi e situazioni di decenni e di secoli. Non può essere lo Stato autoritario a convincere della bontà della democrazia
In base alle disposizioni della Costituzione il presidente filippino Rodrigo Duterte deve chiedere di persona o tramite scritto entro 48 ore, quindi oggi, al Parlamento il sostegno e l’approvazione alla legge marziale decretata due giorni fa sulla parte meridionale del Paese, quasi un terzo della superficie nazionale ed un quinto della popolazione. Al ritorno anticipato a Manila da Mosca, dove si trovava in visita di Stato, ha detto di aver agito su suggerimento della polizia e dell’esercito, che considerano i tentativi di radicamento dell’ISIS nel Paese ormai troppo pericolosi, ad uno stato avanzato e difficili da fronteggiare con i mezzi ordinari.
In effetti i ribelli musulmani che si sono scontrati con l’esercito e la polizia nella città di Marawi martedì scorso hanno issato bandiere dello stato islamico, che è certamente attivo e più volte ha promesso l’instaurazione di un califfato nel Sudest asiatico; cosa che sarebbe più facile nelle Filippine, dove alcune aree quasi sfuggono al controllo del governo, rispetto a Malesia e Indonesia, che hanno invece un forte potere centrale islamico.
La dichiarazione della legge marziale tuttavia genera non poche preoccupazioni. Innanzitutto sospende le libertà civili e consente arresti indiscriminati e detenzione fino a tre giorni senza giustificazione formale. Il presidente ha promesso di evitare e perseguire ogni abuso, ma i cittadini effettivamente in rotta con lo Stato sul piano politico nelle Filippine sono centinaia di migliaia. Non si tratta solo dei gruppi armati e delle organizzazioni islamiche, che con alterne vicende si oppongono al governo centrale dai tempi della colonizzazione spagnola e americana. Ci sono anche gli insorti comunisti, attivi dal 1968, che impongono una tassazione parallela su vaste aree soprattutto rurali e controllano anche militarmente porzioni di territorio. Duterte ha offerto a questi la possibilità di dialogo e collaborazione politica subito all’inizio del suo mandato un anno fa, ma ne ha ricevuto un rifiuto quasi sprezzante. Ciò che ha trasformato l’inziale simpatia del presidente alla loro causa a favore della giustizia sociale in una delusione ed un tradimento difficile da estromettere dal suo carattere passionale.
Uno scontro militare generalizzato con le formazioni islamiche e con il New People’s Army comunista può però solo regalare alle Filippine la guerra civile. Non c’è alcuna possibilità di risolvere per via militare problemi e situazioni di decenni e di secoli. Non può essere lo Stato autoritario a convincere della bontà della democrazia. E il pericolo ISIS indicato dal Presidente per ora rimane una enunciazione non corroborata da prove e fatti di una certa consistenza. Sorge anzi il sospetto che Duterte voglia sottrarre definitivamente la sua azione di governo ai limiti imposti dalle leggi e dagli organismi di controllo umanitario; che veramente egli sappia solo governare col pugno di ferro e da padrone assoluto come ha fatto per vent’anni da sindaco di Davao, ricevendone per altro in cambio un grande consenso popolare.
A livello nazionale però la strategia della forza e della mano libera ai militari può rinsaldare la cooperazione tra tutte le forze sociali scettiche o apertamente ostili a questa modalità di approccio e già critiche della campagna presidenziale anti-droga, che ha fatto migliaia di vittime in particolare tra i piccoli spacciatori. Durante gli anni della legge marziale e della dittatura di Ferdinando Marcos (1972-’86) la Chiesa cattolica e il movimento comunista di fatto si ritrovarono alleati. La successiva Costituzione del 1987 consente al Parlamento e alla Corte Suprema di intervenire sulle iniziative presidenziali di legge marziale e di valutarne l’opportunità e la liceità. In effetti per la prima volta in trent’anni questi organismi costituzionali si trovano di fronte alla grave responsabilità di approvare o bloccare una probabile nuova deriva autoritaria dell’esecutivo; provocata certo in buona parte dai gruppi armati, ma anche dal temperamento personale del presidente Duterte.