Il tasso di disoccupazione è sceso al 3,1%, la percentuale più bassa riscontrata negli ultimi vent’anni. Ma l’ultimo dato sulla povertà relativa è al 16%, il più alto mai registrato. Colpiti soprattutto i giovani poco qualificati, tra cui c’è anche chi è costretto a vivere negli Internet Café
È una specie di cabina di pochi metri quadrati, con lo spazio per un tavolo e il computer. Una ragazza ha appeso alla parete i suoi pochi abiti, sotto il tavolo le scarpe e nello spazio restante si sdraia per dormire. Per lavarsi usa la doccia e il bagno comune. Questi loculi dell’Internet Café sono la nuova frontiera abitativa della frangia più povera della popolazione. Succede a Tokyo, in quel Giappone che, malgrado lotti con la recessione da un paio di decenni, resta la terza economia mondiale.
Fra i nuovi poveri, non ci sono solo i lavoratori di mezza età, magari licenziati e non più appetibili come dipendenti, ma anche i giovani. «Prima lavoravo come segretaria, ma sono stata licenziata quando ho avuto un problema di salute», racconta la ragazza inquilina dell’Internet Café. Lontana dalla famiglia, alla quale peraltro continua a inviare dei soldi, ha dovuto accettare un lavoro sottopagato e illegale. Con i suoi magri ricavi, paga 15 euro a notte per la sua micro stanza. Includendo il costo del bagno, della doccia e della lavatrice, spende circa 600 euro per questa sistemazione ai limiti della sopravvivenza, che da oltre due anni è la sua casa.
Sarà forse un caso estremo, ma a Tokyo, con l’elevato costo degli affitti, uno spazio in un Internet Café è talvolta l’unica alternativa possibile per un giovane che non ha una famiglia benestante alle spalle, non è sufficientemente qualificato ed è costretto a destreggiarsi fra mille lavori precari. Come in Italia, spesso sono mamma e papà a fare da ammortizzatore sociale per i figli. Ma quando la generazione dei genitori non sarà più in grado di assolvere questo compito, secondo gli esperti la povertà diverrà un fenomeno sociale più evidente.
Il Giappone delle grandi aziende, che assumevano il dipendente a vita, coccolandolo con tanti benefit e facendolo sentire membro di una grande famiglia, è definitivamente tramontato. Attualmente soltanto il 10% dei posti di lavoro resterebbero secondo questo schema. Le riforme del mercato del lavoro, avviate una decina di anni fa dall’allora premier Koizumi, hanno portato a una liberalizzazione sempre più spinta. Lavori precari e a tempo determinato sono diventati la regola, soprattutto fra i giovani meno qualificati. Secondo Japan Today, i lavori precari e part-time riguardano oggi il 40% dei lavoratori, circa 20 milioni di persone.
Eppure, il lavoro non sembra mancare: nel novembre scorso, il tasso di disoccupazione era sceso al 3,1%, la percentuale più bassa riscontrata negli ultimi vent’anni ma i consumi, che il primo ministro Shinzo Abe vorrebbe veder crescere, restano al palo.
Non bisogna essere premi Nobel per l’economia per capire che se flessibilità fa rima con precarietà e paghe basse, le persone fanno fatica a spendere. L’ultimo dato sul tasso di povertà relativa – cioè la quota di popolazione che vive con meno della metà del reddito medio nazionale – è del 16%, il dato più alto mai registrato.
Forse il premier Shinzo Abe dovrebbe chiedersi seriamente se la strada intrapresa per stimolare la crescita può veramente funzionare. Gli ultimi provvedimenti parlamentari, nell’autunno scorso, hanno di fatto dato una spinta ulteriore alla flessibilità. Il limite precedente di tre anni per l’impiego in un’azienda di un lavoratore temporaneo è stato rimosso, consentendo alle società di proseguire a coprire una posizione con il lavoro a termine, a patto di cambiare la persona e di avere l’accordo dei sindacati. A protezione del lavoratore è stato previsto un dispositivo per spingere le aziende ad assumere dopo il terzo anno. Ma c’è chi dice che questa nuova legge accentuerà maggiormente la precarietà nel lavoro in Giappone.