Giappone: quando il bullismo diventa piaga sociale

Giappone: quando il bullismo diventa piaga sociale

In un romanzo dello scrittore Mieko Kawakami le emozioni e i sentimenti di una vittima delle vessazioni dell’«ijime» che possono iniziare già dalle scuole elementari. Un’esperienza che due terzi dei ragazzini giapponesi dice di aver vissuto, spesso anche nel duplice ruolo di vittima e carnefice

 

Si sono da poco spenti i riflettori sulla Giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo, che si è tenuta il 7 febbraio scorso, dedicata a un fenomeno non solo italiano, e che sempre di più ormai tende a viaggiare in rete. Accanto alle nuove forme di vessazione online, continuano a persistere la violenza fisica e verbale. La vittima è il diverso: si finisce nel mirino dei bulli per un handicap o una caratteristica fisica, per le proprie origini straniere o per il colore della pelle, per il credo religioso o il sesso, ma a volte anche perché la vittima appare semplicemente debole e insicura, quindi è una preda ideale per i suoi tormentatori. Paradossalmente, però, si può essere bullizzati anche perché si eccelle fra i banchi di scuola.

Uno dei Paesi in cui questa piaga sociale è presente in modo significativo fra bambini e adolescenti è il Giappone. È appena uscito, tradotto in italiano da Gianluca Coci, il romanzo Heaven di Mieko Kawakami (Edizioni e/o), pubblicato nel 2009 e purtroppo tuttora di sorprendente attualità. La voce narrante è quella di un ragazzino di 14 anni, di cui il lettore conosce solo il soprannome offensivo affibbiatogli dai compagni di classe: Occhi storti. Lo strabismo e il suo carattere tranquillo lo hanno tramutato in un bersaglio per il branco, capeggiato dal prepotente Ninomiya. La scuola per Occhi storti è l’inferno: ogni giorno, il gruppo si inventa nuove umiliazioni a cui sottoporlo, accompagnate dall’uso della violenza. Pestaggi, calci e pugni sono sempre seguiti dalla minaccia di nuove ritorsioni se oserà denunciare la situazione a un adulto. Da parte loro, gli insegnanti e la nuova compagna del padre – che gli fa da madre – non dubitano mai delle bugie che il protagonista racconta per giustificare il suo aspetto malconcio o gli abiti strappati. Ogni ematoma è frutto di accidentali cadute dalle scale o di un incidente.

Solo una compagna di classe, Kojima, anche lei bullizzata da un gruppo di femmine, gli diventa amica, in nome del comune destino di vittime che condividono. L’amicizia diventa un fattore di forza, ma entrambi continueranno a subire in silenzio, senza ribellarsi, ogni sorta di angheria, finché la storia non arriverà a un punto di svolta. Il romanzo di Mieko Kawakami ha il pregio di farci entrare nel cuore di un adolescente bullizzato, svelandoci i suoi dubbi e le sue emozioni. Dà voce anche a uno dei suoi tormentatori, che spiega di agire spinto solo dai propri desideri, nel disinteresse più totale di ciò che può provare un’altra persona. Nella sua testa, non esiste una visione etica della vita, un’idea del bene e del male: tutto è relativo e autoreferenziale. Il dialogo fra la vittima e il bullo è uno dei momenti più intensi di tutto il romanzo.

In Giappone dal 2013 esiste una legge contro il bullismo (o ijime, una parola che viene dal verbo “tormentare”), che impone alle scuole di non sottovalutare nessun segnale che possa far pensare a questo fenomeno e di lavorare sulla prevenzione. Nel 2020 sono stati registrati 612mila episodi di bullismo che hanno coinvolto studenti dalle elementari al liceo. Una precedente indagine su un campione di 9000 ragazzini nel 2013 denunciava che il 66,2 per cento degli intervistati era stato bullizzato e il 46,9 per cento aveva sperimentato, in momenti diversi, sia il ruolo di vittima, sia di carnefice.

La violenza fisica è la punta dell’iceberg: derisione, insulti, cattiverie ripetute senza sosta possono minare in modo ugualmente grave l’autostima della vittima e farla sentire colpevole di quanto le sta accadendo, dandole la sensazione  di essere isolata e senza via d’uscita. La disperazione può condurre a gesti estremi. I suicidi fra i minori in Giappone sono un fenomeno preoccupante. Al di là del Covid, che ha aggravato le frustrazioni e le difficoltà dei ragazzi, il trend era già in crescita: 289 suicidi giovanili nel 2016, 315 nel 2017, 369 nel 2018, 399 nel 2019 fino a oltre 400 nel 2020. Probabilmente questi numeri non si spiegano esclusivamente con il bullismo, che però ha il suo peso.

Psicologi e sociologi da sempre cercano di dare una spiegazione a questo fenomeno, che apparentemente stride con l’atteggiamento di un popolo tutto inchini e gentilezza nelle relazioni sociali. Le motivazioni scatenanti non sono diverse da quelle riscontrate altrove. Lo stress della crescita durante l’adolescenza, l’insoddisfazione, persino l’insicurezza portano alcuni ragazzi ad attaccare gli altri, a esercitare un controllo per dimostrare a se stessi la propria forza. L’azione del gruppo attenua la responsabilità del singolo e insieme si fa fronte unito nel negare, qualora la vittima si rivolgesse a un adulto. Nella società giapponese, secondo qualche studioso l’ijime è legato alla forte pressione sociale verso la conformità. Un proverbio popolare dice che “il chiodo che sporge va battuto”: in sostanza, chi è differente va rimesso in riga, affinché si comporti come il resto del gruppo. Essere diversi – per esempio, perché un genitore è straniero – non è qualcosa che è possibile cambiare. E una stoica accettazione delle angherie, nella speranza che i bulli si stanchino, non è una soluzione percorribile, come dimostrano i casi di chi non ha resistito e si è tolto la vita. L’unica strada, in Giappone come altrove, è rivolgersi agli adulti, che vanno sensibilizzati a non minimizzare le richieste d’aiuto dei ragazzi. Anche la ventenne Aiko, la principessa figlia della coppia imperiale giapponese, a otto anni è stata vittima di bullismo a scuola e lo ha raccontato ai suoi regali genitori. È rimasta a casa per un periodo e al rientro vicino a lei c’era sua madre.