Un misterioso agguato al leader della comunità è stato letto come un tentativo di intimidazione verso la minoranza etnica fuggita dal Laos ai tempi della guerra del 1975 e che Bangkok ora vorrebbe costringere al rimpatrio coatto
Poteva essere semplicemente l’ennesimo atto di violenza in un Paese attraversato da tante tensioni e dove – nonostante la pretesa di controllo dei militari al potere – armi di ogni genere girano impunemente e sono sovente usate come strumento di pressione o di giustizia sommaria. Invece, leggendo tra le righe le notizie sull’agguato che il 24 aprile, presso la città settentrionale di Chiang Rai, ha portato al ferimento di Thaweesak Yodmaneebanphot e del figlio e all’uccisione di sua moglie e di sua figlia, si scorgono ragioni e motivazioni diverse e più preoccupanti.
Alla guida del pick-up Toyota crivellato di colpi sparati al momento da ignoti era infatti il leader della comunità hmong in Thailandia, sopravvissuto. La polizia ha immediatamente parlato di una “questione di affari” come potenziale motivazione, ma l’evento è stato immediatamente ricollegato dai mass media locali ai colloqui di pochi giorni prima tra alti esponenti del regime thailandese con loro pari nella capitale laotiana Vientiane. Colloqui che avevano come scopo proprio la sorte dei hmong, che il Laos vorrebbe costringere al rimpatrio e Bangkok vede come un peso, sia per i rapporti con il vicino, sia per l’imbarazzo che le condizioni di ospitalità e la mancanza assoluta di ogni riconoscimento e quindi di diritti provocano nei confronti della comunità internazionale. Un’aggressione quindi che potrebbe avere un significato intimidatorio e che mostra la fragilità della situazione dei hmong nei Paese del sorriso.
La vicenda migratoria di questa popolazione viene da lontano ed è segnata dalla persecuzione. Originari della Cina sud-occidentale son diffusi oggi in diversi Paesi del Sud-Est asiatico continentale. Sono dai sei agli otto milioni, in parte buddhisti e in parte animisti, con una forte componente cristiana. Sono circa 450mila in Laos, concentrati in maggioranza nella parte settentrionale del Paese, ma sempre più diffusi anche nelle regioni occidentali e nella capitale Vientiane. La loro doppia esclusione ha ragioni nella identità etnica e religiosa, ma anche nella scelta di campo filo-americana nel conflitto indocinese in cambio di promesse di autonomia e benessere. Alla vittoria del movimento guerrigliero comunista del Pathet Lao nel 1975, si ritrovarono nella condizione di perdenti e il generale Van Pao che li aveva guidati trovò rifugio negli Stati Uniti con alcune migliaia di combattenti che con il tempo dovevano essere base di una immigrazione massiccia. Oltre 300 mila hmong cercarono invece rifugio in Thailandia, con l’intento di migrare altrove. Una speranza che si trasformò in una diaspora in molti Paesi, ma che bloccò anche molti entro i confini thailandesi sotto la costante minaccia di rimpatrio coatto.
In parte è avvenuto già il 28 dicembre 2009, con la chiusura del campo di Huay Nam Khao, svuotato in poche ore dei 4.300 profughi, quasi tutti anziani, donne e bambini, che lo abitavano da anni. Superstiti di una comunità assai maggiore, irregolare ma sostenuta dalla solidarietà internazionale. Un evento che ha visto proteste cadute nel vuoto, ma che ha soprattutto esposto a ritorsioni persone inermi. Quattro anni prima, in un diverso contesto di politiche immigratorie di Washington, la Thailandia aveva chiuso l’ultimo campo ufficiale e i 15mila “ospiti” erano stati ricollocati negli Stati Uniti. Tuttavia le condizioni nel Paese d’origine hanno successivamente spinto altre migliaia di disperati oltreconfine.
Da maggio 2007 la Thailandia ha sospeso le verifiche dell’Alto commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati che assegnavano lo stato di rifugiato politico, facendo di tutti i nuovi arrivati degli illegali. Le organizzazioni di assistenza straniera hanno da allora limitato le loro attività tra i profughi, anche per gli ostacoli imposti dalle autorità che considerano gli hmong immigrati per ragioni economiche e non riconoscono loro ragioni umanitarie.