Xi Jinping nell’ex colonia britannica per dimostrare che la normalizzazione è diventata una priorità assoluta. Il 1° luglio 1997, Martin Lee e Margaret Ng dal balcone del Parlamento chiedevano libertà e democrazia, mentre oggi la Perla dell’Asia fa i conti con le conseguenze della Legge sulla sicurezza nazionale. E la città è sempre depressa e impaurita
La gestione della pandemia da Covid 19, fa aumentare le misure di distanza e isolamento degli ospiti che scendono da Pechino. La dirigenza cinese è piuttosto drastica e persino spietata nell’imporre misure per arginare il contagio, come si è visto nel tremendo lockdown imposto alla città di Shanghai nei scorsi mesi. C’è sempre la sensazione che, almeno nel caso di Hong Kong, le drastiche misure sanitarie siano strumentali anche alla repressiva agenda politica. Quello di questi giorni a Hong Kong è il primo viaggio di Xi Jinping fuori dalla Cina continentale da quando, nel gennaio 2020, è scoppiata la pandemia. I leader autoritari – ossessionati dal timore di ammalarsi – evitano accuratamente occasioni che li espongano al contagio. Eppure per Xi la normalizzazione di Hong Kong è diventata una priorità assoluta, e la sua presenza lo vuole dimostrare con inequivocabile forza e chiarezza.
Il leader cinese darà formale inizio al mandato di John Lee, il nuovo capo esecutivo della “Zona ad amministrazione speciale” di Hong Kong, scelto lo sorso 8 maggio nel più antidemocratico dei modi, ovvero dal 99% dei membri del Comitato elettorale. John Lee è stato un funzionario di polizia fino a quando, nel 2017, è divenuto capo del dipartimento per la sicurezza. È stato sotto i suoi ordini che la polizia ha pesantemente soppresso le proteste popolari iniziate con la marcia di un milione di cittadini il 9 giugno 2019. Non è certo motivo di soddisfazione per noi sapere che il Capo esecutivo che prenderà il potere a Hong Kong dichiari di provenire dal mondo cattolico e che, a suo dire, avrebbe acquisito i principi che guidano la sua azione politica nella scuola cattolica da lui frequentata. Ci sembra che siano molto più fedeli al vangelo i leader democratici cristiani attualmente in prigione, molti dei quali hanno esplicitamente descritto il loro impegno sociale e politico come applicazione dei principi evangelici.
Questi 25 anni sono per Hong Kong un giro boa significativo. Quando nel 1984 fu firmato il trattato tra Cina e Gran Bretagna circa il futuro della colonia e cominciò il lungo processo di scrittura della Legge base, ovvero la mini-costituzione di Hong Kong, lo stesso Deng Xiaoping aveva indicato che per cinquanta anni Hong Kong avrebbe continuato a mantenere il suo ‘speciale’ stile di vita: “I cavalli continueranno a correre, le azioni in banca continueranno a fruttare, e i ballerini continueranno a danzare”. Con tale famosissima frase Deng Xiaoping, che almeno mostrava di conoscere le cose di Hong Kong, volle rassicurare la gente della città e la comunità internazionale, circa il futuro finanziario, economico, sociale e politico di Hong Kong. Deng lo mise nero su bianco inventando l’originalissima formula “un Paese-due sistemi”. E l’eccezione di Hong Kong doveva durare cinquanta anni. Nel frattempo venne applicata anche a Macao (1999) e in prospettiva avrebbe dovuto rassicurare anche Taiwan, convincendo la gente dell’isola a non temere la riunificazione con la Cina continentale. Nel frattempo Hong Kong, secondo le promesse fatte, avrebbe sviluppato progressivamente i meccanismi democratici per aumentare la partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica fino ad arrivare al suffragio universale.
Molti si sono chiesti perché cinquant’anni? Ci sono varie interpretazioni; mi sono persuaso che la spiegazione migliore sia quella che secondo Deng alla Cina, avviata a grandi passi verso la modernizzazione, ci volevano 50 anni per divenire simile a Hong Kong. Dunque non Hong Kong come la Cina, ma il suo contrario, questo almeno nelle intenzioni di Deng Xiaoping, il secondo imperatore comunista dopo Mao Zedong.
È dunque motivo di grande delusione, amarezza e dolore per la gente essere derubata di questa promessa di libertà e di democrazia senza aver neanche superato il traguardo dei 25 anni. Hong Kong non è mai stata democratica, ma era una città libera e cosmopolita. Ora non lo è più. È una città triste, depressa, impaurita e incerta. Molta gente la lascia per sempre. Un grande esodo si era verificato anche prima del 1997, quando molti cittadini non si fidarono delle promesse di Pechino dopo la strage di Piazza Tiananmen. Si trattò allora di un esodo di prudenza da parte di chi se lo poteva permettere. Ma c’erano anche segnali positivi: il numero dei residenti internazionali aumentò considerevolmente quando sembrò che la formula “un Paese due sistemi” avesse un buon successo, al punto che alcuni emigrati tornarono. Oggi invece non è così: gli espatriati lasciano una città dove non si sentono più a casa e al sicuro. Anche molti cittadini cinesi, pure non benestanti, hanno già lasciato o intendono lasciare la città. Magari avevano simpatie democratiche e questo basta per temere per sé e per i propri figli. È un esodo triste.
Ricordo il 1 luglio di 25 anni fa: c’ero anch’io nella centralissima piazza della Statua di Hong Kong, sotto il Parlamento della città. A mezzanotte, mentre a Wanchai il presidente Jiang Zemin e il principe Carlo siglavano il ritorno di Hong Kong, dal balcone del Parlamento presero la parola Martin Lee, che pronunciò la famosa “Dichiarazione del 1 Luglio” chiedendo libertà e democrazia. Dopo di lui, prese la parola l’avvocata Margareth Ng. Entrambi i leader democratici sono stati recentemente arrestati e condannati: Margaret Ng è in libertà su cauzione; Martin Lee ha avuto la sentenza ‘sospesa’.
Il vescovo Stephen Chow ha recentemente scritto che la vita della gente e dei credenti a Hong Kong “sta diventando sempre più simile a un’esistenza tra le crepe. Un tempo godevamo di molto spazio e libertà di espressione”. Ma, continua il vescovo, “la luce di Dio si trova in tutte le cose, anche nelle crepe. Quanto più dura è la condizione, tanto più resistente sarà la vita. In alcuni casi le crepe possono persino allargarsi”. Il vescovo Stephen conclude il suo accorato appello con un invito che mi fa pensare ad alcuni passaggi del diario di Etty Hillesum, la giovane donna olandese uccisa ad Aushwitz senza mai perdere la fede in Dio e nella bellezza della vita: “Accettare il cambiamento della realtà in cui ci troviamo a vivere non significa approvarlo. Salvaguardare il nostro spazio interiore per discernere è essenziale e benefico”.
La vicenda di Hong Kong è una storia di promesse e speranze tradite. L’arresto del Card Joseph Zen, vescovo emerito della diocesi e ‘coscienza di Hong Kong’ ce lo ha dolorosamente ricordato: è stata passata una linea invisibile che si pensava invalicabile. I cristiani non perdono la speranza: sanno bene che l’opposizione da parte del potere al vangelo e al suo messaggio di libertà non è un’eccezione, è piuttosto un esito al quale essere pronti con coraggio. Ce lo ricordava il beato Paolo Manna: “I governi hanno obiettivi contrari a quello dei cristiani perché temono la libertà, e il vangelo è sinonimo di libertà”. Seguiamo l’invito del vescovo Chow e affrontiamo quanto succede nella amatissima e meravigliosa Hong Kong preservando la nostra libertà, anche attraverso l’esercizio di vita interiore.