Il racconto di una metropoli profondamente cambiata e dal futuro incerto, ma anche della capacità e della forza della gente di adattamento e resilienza. Con un occhio rivolto al prossimo Congresso del Partito comunista
«Bentornato nella nostra città ferita». Così mi ha scritto un’amica all’arrivo a Hong Kong dopo tre anni di assenza. Anni lunghissimi come un secolo. E la trasformazione la si vede e la si sente, quasi la si respira! Basta incontrare le persone – dagli amici a coloro che hanno ruoli di responsabilità-, camminare lungo le strade, visitare luoghi familiari… La città ha vissuto in pochi mesi, come in una corsa pazza che finisce sbattendo contro un muro, la rivoluzione politica dei giovani e del popolo; l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale; la progressiva e inarrestabile affermazione di uno “stato di polizia”; il patriottismo politicamente corretto imposto in scuole, televisioni, giornali; l’arresto di più di 10 mila persone quasi tutte giovanissime, inclusi molti minorenni; l’incarcerazione dell’opposizione democratica; la chiusura di partiti, associazioni e giornali; l’arresto e il rilascio su cauzione del novantenne cardinale Joseph Zen, ora sotto processo.
Hong Kong, inoltre, ha subito pesantemente i contraccolpi della pandemia di Coronavirus, con radicali misure di quarantena che hanno sottratto risorse fondamentali del territorio: turisti e commercianti. Ristoranti, pub, negozi e centri commerciali sono rimasti prima vuoti e poi costretti alla chiusura con drammatiche conseguenze economiche, ma anche ansia e depressione.
Centinaia di migliaia di persone lasciano la città per proteggere il futuro dei loro figli. Alcuni organizzano pranzi d’addio, altri invece se ne vanno senza dire niente a nessuno. Quasi vergognandosi. C’è chi potrebbe partire e non lo fa per scelta, magari pur essendo già obbiettivo di visite e indagini della polizia, e a rischio di arresto. Ci sono divisioni nelle famiglie, rotture tra amici, sospetti reciproci, impossibilità di fidarsi degli altri. Questo e tanto altro è successo e sta succedendo: sono cose che si percepiscono e si vedono: niente è come prima. «Hong Kong è cambiata», è una delle frasi più ricorrenti.
Eppure tornare a Hong Kong, anche se solo brevemente, anche se in questo tempo malaugurato, è stata una gioia immensa. Hong Kong non ha perso alcune delle sue caratteristiche migliori. Fin dall’aeroporto, semivuoto e spettrale, si incontrano funzionari della sanità gentili ed efficienti. Premuroso è anche il personale dell’albergo e dei centri Covid che si devono frequentemente visitare per i tamponi di controllo. Come tutti i residenti permanenti della città, ho dovuto sostituire la carta di identità: è stato facile, veloce e con funzionari cortesi. Le linee della metropolitana, sempre efficiente e sicura, sono aumentate e raggiungono nuove località. Fa caldo umido più del solito, ma girare per Hong Kong è sempre una meraviglia. I paesaggi urbani, gli edifici dall’architettura postmoderna, lo skyline e il porto tra l’isola e Kowloon sono unici e spettacolari.
Gli amici che ho incontrato sono ancora loro: basta poco, un abbraccio, un ricordo e capisco che non sono cambiati. Parliamo di quanto è successo e di quanto sta succedendo. C’è sommessa commozione quando incontro chi ha un familiare o un amico comune in prigione. Ma non ci dilunghiamo più dello stretto necessario: le difficoltà non sono l’unico argomento della conversazione. Non è l’unica chiave di lettura della realtà. C’è da continuare a vivere. La gente di Hong Kong ha lo spirito di adattamento e resilienza delle persone forti dentro. C’è da trovare dentro di sé la forza per non soccombere. La qualità delle relazioni personali, le amicizie sincere acquistano una forza e una importanza maggiore.
Penso alla straordinaria lezione di Etty Hillesum: nessuna circostanza esterna può distruggerti se tu non lo permetti. C’è una vita interiore, con i suoi spazi, e suoi eventi e le sue conquiste, importante come la vita sociale. Uno spazio dove tu rimani libero e che non devi consegnare a nessun usurpatore. Anche in prigione si può vivere così. Mi sembra che molti a Hong Kong, più o meno consapevolmente, abbiano fatto questa scelta. Ho incontrato alcune persone a me carissime e ho visto in loro questo spirito.
Una di loro è il cardinale Joseph Zen, che mi ha accolto quasi con entusiasmo: «Ho perso tutte le battaglie, ma sono felice». Mi ha raccontato con naturalezza del suo arresto e delle udienze in corte, ma soprattutto del bene che fa visitando le carceri. Incontra persone che vivono vicende di trasformazione interiore lontano dai riflettori, ma non per questo meno straordinarie. Alcuni dei leader incarcerati vivono la loro vicenda con spirito di fede e di testimonianza, disponibili a pagare un prezzo alto per valori in cui credono fortemente. Alcuni si avvicinano anche alla fede.
Il vescovo Stephen Chow, che avevo intervistato per Mondo e Missione dopo la consacrazione, ha ringraziato della preghiera per lui e la Chiesa di Hong Kong che abbiamo fatto a Monza, lo scorso 8 dicembre, in contemporanea alla sua ordinazione. Una solidarietà che l’ha colpito. Ha davanti a sé una missione impossibile, ma che ha accettato e che sta affrontando con spirito ignaziano. Mette in atto la pratica del discernimento, che include una lettura condivisa e spirituale con i suoi collaboratori. La Chiesa di Hong Kong ha una leadership che vuole rimanere unita per affrontare una stagione piena di sfide difficili. La priorità sono i giovani, oggi delusi e impauriti. E le scuole, dove la retorica patriottica impone di cambiare i testi di storia e molte cose che facevano di Hong Kong una città plurale.
Il destino di Hong Kong (come pure quello di Taiwan), mai come oggi, è legato alle vicende di Pechino. Ne ho parlato nei giorni scorsi con vari interlocutori. Cosa succederà nel ventesimo Congresso del Partito comunista, che inizierà il prossimo 16 ottobre? Il Presidente Xi Jinping sanzionerà definitivamente il suo potere o sarà l’inizio del suo ridimensionamento? Nessuno lo sa. Di cento quel Congresso avrà conseguenze importanti per la Cina, Hong Kong, Taiwan e per il resto del mondo.
Molti dicono che la Cina non rinuncia al ruolo internazionale e finanziario di Hong Kong e che dunque, in qualche modo, Hong Kong dovrà sopravvivere. Questa almeno sembra la linea del premier Li Keqiang, che alcuni vedono come alternativa a Xi Jinping.
Ma a Hong Kong, se prevale l’orientamento del nazionalismo ideologico, potrebbe essere riservato un destino radicalmente ridimensionato. Se la Cina punterà tutto sulla realizzazione della Regione Metropolitana del Delta del Fiume delle Perle, un mega progetto strategico, su un vasto territorio attorno a Hong Kong che include 11 grandi città e 80 milioni di abitanti, allora Hong Kong non sarà che un quartiere marginale, al quale verrà imposto anche di emanciparsi definitivamente dal ricordo del vissuto coloniale.
Hong Kong fa parte della Cina, come è giusto. Nessuno pensa di volgersi indietro, rimpiangendo un passato che aveva pure tante ombre. Quello che è difficile da accettare è che per realizzare la legittima unità nazionale si deve imporre a una comunità di oltre sette milioni di abitanti la rinuncia alle proprie aspirazioni di libertà, democrazia e pluralismo.
È ora per me di tornare in Italia. Dopo un viaggio di grande emozione, parto con Hong Kong e i suoi tanti volti amici nel cuore. E con la consapevolezza di dover continuare ad essere «un piccolo cronista di questo tempo», come diceva Etty Hillesum.