Con padre Massimo Bolgan, missionario del Pime, nelle baraccopoli sul fiume della grande metropoli. Tra vite segnate da ferite e violenze, ma anche illuminate da tanta umanità. In una comunità dove i piccoli in situazioni a rischio ritrovano la propria infanzia
Se vuoi entrare nella periferia vera di Bangkok alla fine della stagione delle piogge ti ci devi immergere. E non solo in senso figurato. L’acqua del Chao Praya e dei suoi canali arriva quasi alle ginocchia per seguire padre Massimo Bolgan e gli operatori della parrocchia di Pakkret con il pacco viveri per chi lo attende. È l’altro volto rispetto alla Bangkok dei grattacieli, dei treni modernissimi e delle splendide pagode dove si affollano i turisti. Il volto delle decine di migliaia di poveri che vivono di espedienti ai margini delle strade dell’immensa metropoli.
«È stato padre Adriano Pelosin a cominciare a venire – racconta padre Bolgan, 55 anni, veneto di Salzano, in Thailandia dal 1999 -. Incontrava i malati di Aids che affidava ai padri camilliani. Ma nella baraccopoli vedeva anche tanti bambini che si trovavano in condizioni difficili e così ha iniziato a coinvolgere alcune donne nello stesso slum. Finché ha trovato un benefattore che insieme ad altre persone hanno investito in questo progetto. Così su un terreno poco lontano dalla nostra chiesa sono nate le Case della speranza, un complesso dove alcune donne sono venute a prendersi cura dei bambini che padre Adriano portava fuori dalle baraccopoli».
Negli anni successivi è toccato poi a padre Raffaele Manenti, padre Daniele Mazza e padre Paolo Salomone raccogliere questa eredità, compiendo tutti i passaggi necessari per trasformare questa scintilla di carità in un ente riconosciuto, la Fondazione San Martino, che oggi opera per conto dell’arcidiocesi di Bangkok. Passo importante, grazie al quale le Case della speranza possono accogliere fino a 100 di questi bambini, con il sostegno della Fondazione Pime. Ai bambini e ragazzi si dedica un’équipe di 15 dipendenti, che dal 2020 è padre Bolgan a guidare: «Ma sono loro a portare avanti tutto», ci tiene a precisare. E sono loro anche a guidarci baracca dopo baracca, tra questa umanità che vive ai margini delle strade.
«Seguiamo sette di questi insediamenti – continua il missionario del Pime – anche in altre zone più vicine al centro della città. Senza però spostarci troppo lontano, perché muoversi nel traffico di Bangkok è complesso. E poi basta entrare nelle stradine più vicine e i poveri li trovi. Prima andavamo anche tra quelli accampati lungo la ferrovia abbandonata; ma adesso li hanno mandati via. Qui funziona così: occupano un terreno libero, trovano qualcosa per costruirsi un tetto e vengono tollerati; i servizi municipali stessi spesso costruiscono le passerelle per quando la zona si allaga e gli allacciamenti elettrici. Poi, però, quando devono costruire li mandano via e basta».
Arriviamo dalle prime famiglie: all’ingresso della baraccopoli ad attenderci c’è una piccola arena per il combattimenti tra i galli. «Qui si scommette su tutto – sorride padre Massimo -. Di che cosa vive questa gente? Sinceramente non lo so. Chi ha un motorino fa le consegne. Ma altri li trovi di giorno che dormono nelle baracche, anche giovani. La droga oggi ha il volto delle pasticche di Yaba, letteralmente “la medicina che fa impazzire”. La trovano a buon mercato. L’eroina che circolava vent’anni fa adesso la usano solo negli strati più alti della società».
Sulle passerelle arriviamo da Ratri, diabetica, allettata in una di queste baracche sull’acqua dove anche qualche piccolo serpente ogni tanto prova ad asciugarsi un po’. Sono cinque anni che non va da un medico. È solo il primo di tanti incontri simili: ad aspettarci c’è anche un altro signore anziano, cieco. Ti chiedi come abbia fatto a imparare a muoversi con sicurezza su quattro assi che sono casa sua, dove tutto ciò che possiede è appeso al soffitto di una stanza piccolissima per non finire a mollo.
Poi scompaiono anche le passerelle e allora bisogna entrare fino al ginocchio nell’acqua del fiume per arrivare da chi aspetta sulla porta con l’immancabile sorriso sotto la fotografia di re Rama X, onnipresente anche nella baraccopoli.
Una donna ci invita a salire dal marito, anche lui paralizzato al piano superiore: l’uomo è sofferente, buddhista come tutti qui scambia qualche parola con il missionario. Quando la moglie ci saluta padre Bolgan sorride: «Mi ha augurato di poter avere fortuna e di diventare ricco… Lo vedi anche tu in quale situazione si trovano a vivere, eppure lo augura lei a me. Sono cose che mi fanno sempre pensare. Questa gente ha una forza nell’accettare la povertà e le sofferenze più dure che mi tocca profondamente. Penso a come reagirei io, a che cosa diremmo noi, contro chi ce la prenderemmo. E mi chiedo anche se nel nostro stesso modo di guardare alla vita non siamo intrisi di una certa mentalità pagana, dove tutto è merito».
I bambini delle Case della speranza a Pakkret ti accolgono con i loro sorrisi e le loro danze. Ma escono da queste baracche. Hanno alle spalle situazioni durissime, a volte addirittura terribili. «Ikiu oggi ha 9 anni – racconta padre Massimo -. È nato in carcere: sua mamma là non poteva certo tenerlo e allora i servizi sociali ci hanno chiesto se potevamo accoglierlo noi. Solo che quando poi la donna è uscita di prigione è sparita. Quindi adesso non ha più nessuno, abbiamo dovuto muoverci per fargli rilasciare dei documenti».
Una storia ancora più triste è avvenuta qualche mese fa. «Durante le vacanze una nonna veniva a prendere Koya, la nipotina di quattro anni – continua il missionario -. Trascorrevano insieme qualche giorno fuori dalla comunità, ci sembrava una persona affidabile, dimostrava affetto. Una mattina ho ricevuto sul cellulare il messaggio: l’hanno trovata morta, uccisa dalla nonna che l’ha picchiata col mattarello. Quando l’ho vista nella bara al tempio buddhista ho provato un dolore grandissimo: una bambina che qui da noi era così solare, dopo soli pochi giorni l’ho ritrovata coi capelli rasati a zero e le ferite, irriconoscibile.
È stato un momento difficile per tutti. Con i bambini siamo andati anche noi al tempio a recitare un’Ave Maria per lei. C’era la madre con il pancione di un altro figlio in arrivo: l’ho vista dispiaciuta per averla abbandonata. Li guardi da noi e non ti rendi conto di quanto dolore questi piccoli si portano dentro».
In un contesto del genere per padre Bolgan la missione oggi diventa molto semplicemente stare accanto a questi piccoli. «Anche tra le tribù dei monti avevamo tanti bambini da seguire nei nostri ostelli – spiega -. Ma qui sento che hanno ancora più bisogno del nostro abbraccio. E vederli sereni sapendo quanto hanno alle spalle mi rende felice. C’è molta gente che ci aiuta, anche tantissimi buddhisti che qui sono la quasi totalità della popolazione: qualsiasi ricorrenza festeggino vengono a portare doni alla nostra Casa. E cerco di educare anche i bambini alla gratitudine, perché nulla deve essere scontato».
E dopo il tempo trascorso con voi nelle Case della speranza che cosa troveranno questi ragazzi? «Possiamo tenerli qui solo fino alla terza media. Dopo non so che cosa li attenderà. Ma anche solo il fatto di poter donare loro questi anni insieme in un ambiente diverso, credo rappresenti molto».