AL DI LA’ DEL MEKONG
Il Buddha, prima di Cristo

Il Buddha, prima di Cristo

Se il Cristo non fosse venuto e non mi avesse chiamato, mi sarei volentieri unito a quel monaco e a quelli come lui. Ma al tempo stesso, il Cristo che è venuto, non scansa nessuno. Per questo non si dovrebbe mai edificare il Suo Regno sulle ceneri di un qualche altro baluardo religioso

 

«Credo in ciò che ogni uomo
ha sperato e patito»1

Gli studenti della nostra scuola media sono divisi in gruppi di interesse. Tra questi c’è il gruppo di impegno sociale che una volta al mese visita gli anziani del villaggio, tanto più se infermi. Qualche giorno fa, per la caritativa di febbraio, abbiamo deciso di fare visita all’anziano monaco buddista che vive nella pagoda del villaggio e che con i suoi 87 anni è il cittadino più longevo e più amato da tutti.

Ogni qualvolta si incontra un monaco bisognerebbe utilizzare la lingua dei monaci, con vocaboli precisi che concorrono a proclamare e difendere la loro dignità. I ragazzi però non la conoscono perché non la usano e questo purtroppo fa sì che gli incontri con i monaci siano sempre ridotti al minimo. Di fatto, per tutti è stato un piacere l’aver incontrato quell’anziano monaco che oltre al primato degli anni ha anche il merito di aver fondato il monastero e costruito la pagoda del villaggio di Pka Doung, dove si trovano la nostra scuola e la nostra parrocchia.

Ormai il look Ta, il signor nonno-monaco, come è affettuosamente chiamato da tutti noi, mi conosce. Sa che se lui ha costruito la pagoda, io ho costruito la scuola. E sa che se lui è discepolo del Buddha, io lo sono del Cristo. Nondimeno, di fronte ai suoi 87 anni di cui almeno 60 di vita monastica, ormai impossibilitato a camminare e accudito da due monaci molto più giovani di lui, mi sono sentito quel che di fatto sono, l’ultimo arrivato! Perché qui, dove mi trovo e sono parroco, il Buddha viene prima di Cristo.

La vita semplice che l’anziano monaco conduce, senza energia elettrica, senza materasso, senza assistenza medica, senza sedia a rotelle, senza servizi igienici appropriati, senza… infermieri competenti da chiamare con il campanello, mi ha fatto sentire la sua dedizione al triplice gioiello, il Buddha, il Dharma e il Sangha, autentica almeno tanto quanto la mia dedizione al Cristo, alla Scrittura e alla Chiesa. Non solo, i fedeli buddisti che abitano nel villaggio fanno a turno per portare al vecchio monaco il cibo quotidiano. Secondo la legge monastica gli è permesso nutrirsi di cibo solido solo fino al mezzogiorno, dopo gli è permesso assumere solo liquidi e bevande, fino all’indomani. L’andirivieni mattutino dei fedeli, secondo i turni, rimedia al fatto che non potendo camminare, non può nemmeno lasciare il monastero per la questua quotidiana. Questa sollecitudine silenziosa da parte delle famiglie nel sostenerlo, mi commuove e smonta tanti miei pregiudizi.

Già il grande teologo Romano Guardini, nell’impatto con la figura del Buddha aveva espresso considerazioni interessanti, che ho sentito vere di fronte all’anziano monaco, ai suoi 87 anni, 60 dei quali di vita monastica. Per Guardini il Buddha costituiva «un grande mistero». «Egli – ha scritto il teologo – si presenta in una libertà che intimorisce, quasi sovrumana; al tempo stesso, vi accompagna una bontà potente come un’energia cosmica. Forse Buddha sarà l’ultimo con cui dovrà cimentarsi il cristianesimo».2

Non mi serve qui ribadire quello che credo e cioè che la rivelazione in Cristo ha carattere «definitivo e completo» (Dominus Iesus, 5). Nondimeno l’affermazione secondo la quale le altre religioni o vie di saleazza, al confronto con Cristo, «si trovano in una situazione gravemente deficitaria» (DI, 22), non mi impedisce di dichiarare il valore infinito di una vita monastica così lunga, così austera, così silenziosa, così appartata come quella del look Ta e affermare che si tratta di un’esperienza di fede non minore o più opaca della mia. Anzi, riflette in modo luminoso un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini (Nostra aetate, 2). Per quanto mi riguarda, lo stimo perché «credo in ciò che ogni uomo ha sperato e patito». Se il Cristo non fosse venuto e non mi avesse chiamato, mi sarei volentieri unito a quel monaco e a quelli come lui, per gustare e far gustare il Dharma.

Ma al tempo stesso, il Cristo che è venuto, non scansa nessuno. Per questo non si dovrebbe mai edificare il Suo Regno sulle ceneri di un qualche altro baluardo religioso, tanto più se così nobile, austero e inerme. E nondimeno, sento anche altro. Sento il Cristo, Vivente e Veniente (Ap 1,4). Sento la Sua presa nuziale, il Suo discendere dentro la mia vita anche là dove non c’è legge o ascesi, Dharma e pratica del Dharma, ma solo attaccamento e ombra. Non è il Suo salire, ma è quel Suo discendere ciò che mi ha spinto fino a qui. Quel Suo averci messo la faccia, quel Suo patire che non lo libera affatto, per una carità che sempre urge, infiamma, inquieta, non porta pace ma lotta. Se mai qualcosa accadrà, non sarà per via di una spiegazione di ragione, per un’immagine mentale o una pratica meditativa, ma per la Sua presenza, per questo Suo continuo discendere, venire, morire. Chiamare.

In Lui, «anche la fede (che pensai bastasse) / è un pozzo a dismisura della sete».3

1 C. PAVESE, Dialoghi con Leucò, Torino 1999, 170.

2 R. GUARDINI, Il Signore, Morcelliana, Brescia 2005, 404-405.

3 R. BARSACCHI, Marinaio di Dio, Firenze 1985, 55.