Padre Daniele Mazza, missionario del Pime in Thailandia, ha conseguito un master studiando con i monaci in un’università buddhista. Il suo racconto di quest’esperienza forte di dialogo
Un prete cattolico sui banchi insieme a centinaia di monaci nel loro abito arancione; fianco a fianco, per conoscere anche lui il buddhismo “dal di dentro”. È l’esperienza vissuta da padre Daniele Mazza, romano, missionario del Pime da nove anni in Thailandia, dove attualmente è parroco della chiesa di Maria Madre della Misericordia a Nonthaburi, nella diocesi di Bangkok. Qualche mese fa padre Daniele ha completato un master presso la prestigiosa università Mahachulalonkorn, frequentata da monaci buddhisti provenienti da tutta la Thailandia e da molti altri Paesi dell’Asia. Un’esperienza unica di dialogo che padre Daniele racconta in quest’intervista a Mondo e Missione.
Com’è nata l’idea del master in buddhismo?
«Il desiderio di un incontro con persone di altre religioni mi accompagna da molto tempo. A Roma ho frequentato le scuole superiori nel quartiere ebraico, avevo spesso occasioni di scambio con compagni di quella religione. Poi, nelle Filippine durante l’anno del diaconato, l’allora vescovo Luis Antonio Tagle (oggi cardinale a Manila) mi inviò in un quartiere islamico: un’esperienza molto bella ma non priva di difficoltà…. Qui in Thailandia nel 2012 il Pime ha celebrato i quarant’anni della sua presenza e in quell’occasione il superiore generale ci ha invitato a riprendere il dialogo con il buddhismo che era stato un po’ tralasciato per tanti altri impegni missionari. Così ho dato la mia disponibilità chiedendo di poter frequentare il master in buddhismo presso l’università Mahachulalonkorn, un ateneo statale gestito dal Sangha (Comunità – ndr) buddhista thailandese, dove studiano circa 27 mila monaci. Mi interessava capire che cosa studiano i monaci e come lo studiano. Finora avevo conosciuto il buddhismo solo su testi occidentali e con professori cristiani; desideravo invece studiarlo su testi thailandesi e insegnato da professori buddhisti. Mi attirava anche il fatto che nel curriculum è prevista la pratica della meditazione, un’esperienza che mi ha aiutato a capire il buddhismo più dal di dentro».
Che cosa rappresenta oggi il monachesimo buddhista per la Thailandia?
«I monaci sono da sempre un punto di riferimento importante per la gente. Molti svolgono la funzione classica che è quella di praticare cerimonie (ad esempio i funerali) e andare in giro per la questua mattutina, distribuendo benedizioni e permettendo ai fedeli di acquisire meriti. In alcuni monasteri più virtuosi si recitano brani della Scrittura buddhista, si offrono momenti dove si insegna la meditazione, durante l’estate si accolgono giovani e bambini (maschi) per introdurli alla vita monastica. Nello stesso tempo, però, anche in Thailandia sono sempre più presenti gli effetti della globalizzazione: è facile vedere monaci nei centri commerciali mentre scelgono tra cellulari o tablet dell’ultimo modello. Recentemente, poi, sono usciti sui giornali alcuni scandali sia dal punto di vista economico sia per abusi sessuali. Questo non ha minato la fiducia verso i monaci, ma sta comunque spingendo il Supreme Sangha Council (l’organo di governo del Sangha thailandese) a controllare di più i monasteri e a rivedere alcune regole».
Come hanno visto la sua presenza in università gli altri studenti buddhisti?
«In qualcuno c’erano sospetto e paura: “Che cosa viene a fare un sacerdote cristiano? Vuole vedere i nostri punti deboli per attaccarci? Vuole convertirci?”. Questo perché, in passato, alcune sette protestanti hanno attaccato il buddhismo con libri e opuscoli. Anche da parte dei cristiani c’era molta paura. Un gruppo di donne anziane della mia parrocchia mi ha detto chiaramente che pregavano per me temendo che mi convertissi al buddhismo. E qualche sacerdote non ha fatto mistero delle sue perplessità: “Tu sarai il cristianesimo per migliaia di monaci – mi ha detto -. Se dici qualcosa di sbagliato o inappropriato potresti distruggere anni di dialogo e di relazioni con il buddhismo…”. Queste paure mi hanno aiutato a chiarire le mie motivazioni e mi hanno aiutato ad essere più prudente. Spesso chiedevo consiglio in diocesi su che cosa fare oppure no. Col tempo, però, il senso di sospetto è scomparso e ha lasciato spazio ad amicizie profonde che mi hanno permesso di sentirmi libero di porre persino domande spinose senza la paura di essere frainteso».
Lei ha praticato la meditazione vipassana: che cos’è e che cosa le ha lasciato questa esperienza?
«Vipassana è una parola pali che significa “vedere le cose in profondità, la loro più intima natura”. È una tecnica con cui si cerca di osservare in modo continuato e attento tutti gli stimoli sensoriali e mentali nel momento in cui essi accadono. Per il Buddha quando uno vede e capisce le interconnessioni dei vari stimoli sensoriali e mentali e vede alcune verità, capisce anche qual è la via che porta alla liberazione. Che cosa mi ha lasciato questa esperienza? Tantissime cose. Mi ha colpito l’importanza che il buddhismo attribuisce all’esperienza personale e il modo in cui ha – per così dire – catalogato queste esperienze. L’ accento su questa pratica mi ha fatto riflettere molto sulla mia esperienza cristiana e su come accompagnare altri a compierla proprio come io sono stato accompagnato per l’esperienza buddhista. Mentre studiavo mi è stato chiesto di insegnare per un semestre cristianesimo ai monaci del dipartimento di Religioni comparate. Alla fine ho portato i monaci nella mia parrocchia per un “assaggio” di esperienza cristiana. Siamo andati in un centro per bambini disabili, nelle baraccopoli a visitare anziani e ammalati, hanno partecipato alla Messa domenicale e a una condivisione della Parola di Dio, dicendo di aver sperimentato quanto sia utile ascoltare l’esperienza dell’altro consegnata come dono. Riguardo alla Messa hanno apprezzato molto il senso di famiglia che si respira. Riguardo alla visita agli ammalati e agli anziani hanno detto che li ha aiutati a capire perché Gesù andasse a trovare la gente lì dov’era. Qualcuno ha anche aggiunto: “Quando torno in Myanmar, nel mio monastero, anch’io andrò a visitare gli anziani e gli ammalati nella mia zona”. E poi la meditazione mi ha insegnato l’importanza di coltivare la concentrazione e l’attenzione continuata. Nel cristianesimo non viene data così tanta importanza a questi processi… Io, invece, ne ho trovato molto beneficio ».
Vi sono dei pregiudizi nello sguardo con cui in Occidente guardiamo al buddhismo?
«Credo che un ostacolo nel guardare il buddhismo sia quello di considerarlo una filosofia. Questo ci porta a infinite discussioni “filosofiche” sul significato del Nirvana, del Nulla, dell’Essere, del Non-Essere, dell’io, del non-io e altre cose simili che ci distolgono dall’esperienza spirituale che sta dietro a questi concetti. Esperienza che non potrà mai essere concettualizzata in modo chiaro e perfetto. Come superare questo ostacolo? Condividendo e concentrandosi di più sull’esperienza spirituale di ciascuno. Dialogo di spiritualità più che dialogo teologico».
Che cosa perde il dialogo interreligioso se si ferma solo alle tre fedi abramitiche?
«Per un cristiano il dialogo interreligioso è vitale: si tratta di scoprire che cosa lo Spirito sta operando nelle altre culture, nelle altre religioni e nella vita di chi ancora non conosce Cristo. Limitare il dialogo solo alle tre fedi abramitiche, allora, ci impoverirebbe di tutta la ricchezza che lo Spirito sta elargendo a più di 700 milioni di persone. Equivarrebbe a ignorare una parte dell’opera di Dio. Più propriamente il buddhismo ci sfida a chiarire molte cose. Mentre insegnavo parlavo dell’esperienza di Dio che si rivela e parla al cuore dell’uomo come dell’esperienza chiave del cristianesimo. E ricordo che alcuni studenti mi chiedevano: “Padre, come fai ad essere sicuro che è Dio a parlare? Non sei forse tu che te lo immagini? Come fai a dire che è Dio ad averti chiamato ad essere sacerdote?”. Ecco, il dialogo con il buddhismo ci aiuta a chiarire e a rendere ragione della nostra fede anche in questi aspetti».
Cristiani e buddhisti come vivono il dialogo nella dimensione più quotidiana?
«La maggior parte vive quello che si chiama il ”dialogo di vita”, la pacifica convivenza giornaliera tra vicini di casa che appartengono a religioni diverse. I thailandesi buddhisti tendono ad essere molto tolleranti e aperti e c’è curiosità nel conoscere che cosa sia il cristianesimo. Diversi dei nostri cristiani sono sposati con rito misto e il loro partner è un buddhista. È frequente sentire da una moglie cristiana che è il marito a spingerla ad andare a Messa. Oppure vedere una moglie buddhista che accompagna il marito e i figli cristiani mettersi in fila al momento della comunione per ricevere la benedizione dal sacerdote. Ultimamente anche il governo thailandese sta dando molto spazio alle religioni come strumento per creare unità nazionale. Tutti gli anni si organizzano dei Campi di dialogo interreligioso dove un centinaio di studenti hanno l’occasione di passare qualche giorno insieme per conoscersi e per svolgere qualche azione sociale insieme (piantare alberi in una zona in cui mancano, ripulire un canale dalle sterpaglie…). Questo permette ai ragazzi di fare un’esperienza positiva di incontro e alle comunità religiose di non rimanere chiuse».