In queste ore in cui in Italia si parla tanto della chiusura dei voli dal Bangladesh la testimonianza di padre Gian Paolo Gualzetti, che nella periferia industriale di Dhaka sta accanto ai giovani lavoratori: «La pressione economica e la fame qui sono più forti di ogni lockdown. Cerchiamo di aiutare chi è più in difficoltà. La medicina qui? Quella migliore è ancora la preghiera insieme al paracetamolo tre volte al giorno…»
Grazie ai tamponi l’Italia ha scoperto il Bangladesh. Ha fatto notizia in queste ore in Italia la decisione del ministero della Salute di bloccare i voli dal Bangladesh dopo che su un aereo proveniente da Dhaka sono stati trovati 36 passeggeri positivi al Covid-19. La verità è che – come scriviamo da settimane su questo sito – in tutta l’Asia Meridionale è oggi una delle regioni dove il Coronavirus si sta diffondendo a macchia d’olio. Gli ultimi dati dal Bangladesh parlano di circa 170.000 casi e 2151 vittime, di cui ben 46 solo nelle ultime 24 ore. Numeri da rapportare a un Paese di 160 milioni di abitanti (quasi tre volte l’Italia) ma anche con una struttura sociale e un sistema sanitario nel quale le misure di prevenzione e controllo adottate in Occidente sono semplicemente inimmaginabili. Frontiere aperte o chiuse, la domanda vera diventa allora: come sta vivendo le gente comune in Bangladesh l’emergenza Covid-19. Lo racconta in questa testimonianza padre Gian Paolo Gualzetti, missionario del Pime, che vive la sua missione nell’estrema periferia di Dhaka in un contesto del tutto particolare: il distretto industriale di Zirani, dove con la sua comunità si prende cura dei giovani lavoratori arrivati dai villaggi e che sono tra le fasce della popolazione più colpite dalla crisi economica creata dal Coronavirus..
Qui le cose sono ancora molto incerte perché il governo ha allentato le regole del lockdown e quindi si è ripreso a lavorare e a viaggiare. La pressione economica e della fame di molti hanno il loro peso. Ogni tanto il governo dichiara qualche zona rossa, soprattutto a Dhaka, ma i controlli sono un po’ alla bengalese. Quello che tutti sperano è che il caldo faccia la sua parte e poi un popolo giovane come quello del Bangladesh ha un sistema immunitario senz’altro più forte di quello occidentale; così dicono e speriamo che abbiano ragione perché le strutture mediche e sanitarie del nostro Paese sono insufficienti rispetto a una pandemia devastante.
Vivo anch’io la mia quarantena allentata, perché ormai da giugno ho ripreso ad andare un giorno e mezzo a Dhaka alla PIME house per servizi di procura e un po’ di fraternità con gli altri padri.
Al centro di Zirani vivono con noi anche tre suore del Pime, un catechista, due cuoche, un guardiano tutto fare, e una trentina di giovani lavoratori e lavoratrici (anche loro in progressiva diminuzione, soprattutto i ragazzi, perché la paura del contagio fa novanta e il richiamo della mamma fa cento…).
Per ora noi seguiamo le regole base e non abbiamo ancora aperto le porte per le Messe pubbliche e le visite nelle famiglie. Una bella penitenza. In compenso con i giovani lavoratori e lavoratrici ospiti al nostro centro di Zirani abbiamo fatto vita da “campeggio” decidendo insieme il programma giornaliero con lavoretti, partitelle, catechesi, visioni di film serali, messe, cucina… Una bella occasione per conoscersi meglio che è durata dalla Settimana Santa alla Pentecoste.
Ora però i nostri giovani lavoratori e lavoratrici hanno ripreso a lavorare e quindi sono aumentate le sfide. Un mio confratello – medico e “anziano” – è una sicurezza che rincuora tutti noi anche se poi ogni tanto mi confida che in questa pandemia la miglior medicina è ancora la preghiera, oltre che al sorgere della febbre il classico paracetamolo preso tre volte al dì per tre giorni…
In questi mesi stiamo affrontando insieme l’emergenza Coronavirus perché sono tante le famiglie e i giovani che non hanno ricevuto lo stipendio per intero, ma devono pagare l’affitto e il bazar senza sconti. Quindi li stiamo aiutando con un piccolo contributo mensile. Poi ci sono le emergenze di chi ha perso il lavoro e quindi l’aiuto a volte consiste nel pagare l’affitto del mezzo che riporta al villaggio le poche cose che arredavano la loro stanza. Sono piccoli aiuti ma preziosi. Non potendo visitare tutte le famiglie sparse in questa zona industriale, i membri del nostro consiglio pastorale stanno collaborando egregiamente nel segnalare le famiglie o i giovani più bisognosi della propria zona. Un bello spaccato di Chiesa viva.