Il Coronavirus e il popolo della discarica

Il Coronavirus e il popolo della discarica

La pandemia ha aumentato in Asia il numero di quanti dipendono dai rifiuti per la propria sopravvivenza. Ma la loro salute oggi è ancora più a rischio per le tonnellate di scarti sanitari smaltiti senza particolari accorgimenti

 

Nel continente asiatico, come in altre aree del mondo, la pandemia da Covid-19 ha aggiunto ulteriori problematicità alle vite di centinaia di milioni di persone: migranti, lavoratori precari, abitanti degli slum… Tra quanti sperimentano una situazione particolarmente precaria a causa del Coronavirus vi sono anche coloro che vivono nelle discariche, traendo dagli scarti degli altri la propria sopravvivenza. Da un lato tante nuove persone – in particolare donne e minori – si sono aggiunti alla ricerca tra i rifiuti di briciole di possibilità negate ai capofamiglia e agli adulti dall’arretramento produttivo e occupazionale. Dall’altro, l’aggiunta quotidiana nelle discariche di migliaia di tonnellate di scarti ospedalieri e sanitari espone il popolo delle discariche a maggiori rischi di contagio.

Questa realtà è evidenziata in maniera evidenti un Paese, l’India, che a partire da Mumbai – la sua capitale economica e finanziaria – ha almeno 4 milioni di abitanti che vivono stentatamente della selezione e vendita di rifiuti guadagnando mediamente tra 2 e 3 euro al giorno. Qui almeno la metà di quanti sono impegnati nella raccolta e riciclo dei rifiuti urbani, sarebbero positivi al Covid. Non molto dissimile la situazione nell’area metropolitana della capitale Delhi, dove si stima siano almeno 700 le tonnellate di scarti sanitari prodotti quotidianamente e smaltiti per la maggior parte parte in discariche senza particolari accorgimenti per chi ne venga in contatto. Materiale oltretutto non riciclabile e che quindi deve essere separato da altro meglio commercializzabile, esponendo chi lo seleziona a contatto prolungato e a rischi maggiori.

Si stima che in tutta l’Asia il 2% degli abitanti dipendano per la propria sopravvivenza dalle discariche, e se la loro resta una vita “ai margini” in contesti che hanno spesso visto una crescita accelerata di possibilità e redditi, la loro condizione, come pure la tipologia dei materiali da essi selezionati e riciclati, ha visto un’evoluzione negli ultimi decenni. L’ultima frontiera è la selezione di elementi in molti casi ad elevata tossicità recuperati dagli scarti dell’elettronica di consumo che il Programma Onu per l’Ambiente valuta globalmente in 40 milioni di tonnellate all’anno.

Davanti alle proprie necessità e a quelle pubbliche, il “popolo della discarica” si è quasi ovunque organizzato per meglio gestire il proprio impegno, massimizzare le possibilità di guadagno, cercare il riconoscimento di un ruolo pubblico.

A Bekasi viene oggi recuperata buona parte di quel terzo dei rifiuti prodotti dai 10 milioni di abitanti della capitale indonesiana Giakarta destinato al riutilizzo produttivo o al compostaggio. Qui la discarica di Bantar Gebang – tra le più estese la mondo, copre una superficie di 200 campi di calcio per un’altezza che può raggiungere quella di un edificio di 15 piani – accoglie ogni giorno 7.000 tonnellate di rifiuti. Migliaia di individui, spesso interi nuclei familiari, setacciano giorno e notte una distesa maleodorante e fumante in continua mutazione, traendo sostentamento dalla selezione e vendita di quanto recuperabile in coordinamento con i servizi ambientali.

La maggior parte dell’Asia ha una media di raccolta della metà dei rifiuti urbani prodotti e il resto viene abbandonato nelle acque, nei terreni oppure bruciato con conseguente rilascio nell’aria di sostanze tossiche. Un fenomeno non relegato solo ai Paesi più poveri, in quanto anche quelli più arrembanti faticano a garantire le ingenti risorse necessarie al recupero, smaltimento e riciclo dei rifiuti. Così dall’India alla Cina, dal Bangladesh alle Filippine sono nate iniziative di recupero, un tempo indicate come specchio di povertà e oggi accolte come mezzo per affrontare la gestione dei rifiuti e per fornire possibilità di reddito a gruppi di popolazione altrimenti privi di possibilità.

In Indonesia, sono motivo di orgoglio le 6.000 “banche dei rifiuti” dove i materiali riciclabili vengono scambiati con denaro contante; ma pochi ignorano che – qui come altrove nel continente – la condizione del “popolo delle discariche” resta di precarietà, sottoposta a gravi rischi senza alternative.

Foto: Flickr / Adam Cohn