È dall’inizio dell’anno che ovunque in Cambogia, all’ingresso degli edifici pubblici, su richiesta del Primo Ministro, hanno appeso degli striscioni con la scritta «Grazie Pace» allo scopo di celebrare la pace e la stabilità politica di questi ultimi decenni…
«La maggioranza sta (…)
come un’anestesia,
come un’abitudine». F. De André
È dall’inizio dell’anno che ovunque in Cambogia, all’ingresso degli edifici pubblici, nella capitale Phnom Penh come nelle province, su richiesta del Primo Ministro, hanno appeso degli striscioni con la scritta «Grazie Pace» allo scopo di celebrare la pace e la stabilità politica di questi ultimi decenni. Il leader cambogiano, alla guida del Paese da almeno 35 anni, ha infatti saputo garantire stabilità, prosperità e sviluppo.
I detrattori, per contro, legano questo successo al fatto che da tempo il Primo Ministro e il suo gruppo di potere hanno azzerato il dibattito politico, dissolto il partito di opposizione e censurato qualsiasi forma di dissenso interno. Risulta evidente dunque che la “pace” celebrata dagli striscioni, per alcuni non sia affatto autentica perché originata dall’aver messo a tacere una buona parte dell’opinione pubblica.
Gli striscioni, in alcuni casi, appaiono anche all’ingresso di edifici privati, scuole o attività commerciali, e questo mi ha fatto pensare al fruttivendolo di Praga di Vaclav Havel che nella Cecoslovacchia di quel tempo, insieme alla sua verdura esponeva anche un cartello con scritto «Proletari di tutto il mondo unitevi!». Di fatto – sottolinea Havel – il fruttivendolo esponeva lo striscione non perché fosse particolarmente devoto al partito o all’ideologia in questione, ma perché un simile gesto gli garantiva, «al pari di mille altre “innocenti” concessioni al regime…, una vita relativamente tranquilla» (1).
Allo stesso modo, credo che tra coloro che hanno appeso lo striscione «Grazie Pace» o più in generale sostengono il partito, vi sia la stessa buona dose di convenienza e conformismo. Non si tratta cioè di ideologia, presunzione o sete di potere, quanto di auto-arruolamento, di convenienza e obbedienza ai riti ufficiali del Sistema. Perché pur di sopravvivere indisturbati, si preferisce seguire la logica della maggioranza, del politicamente corretto, unanimemente riconosciuto e conveniente. Almeno fino a quando non farà irruzione il coraggio della verità di fronte a ciò che accade. Allora anche il nostro fruttivendolo, stanco di stare al gioco del Sistema, smetterà di esporre il cartello, osando quella «resistenza etica» indicata da M. Foucault come possibile antidoto alla «menzogna istituzionalizzata» tipica di ogni regime ideologico e totalitario.
Inutile dire che in questo tempo di pandemia, la costante sensazione di pericolo e minaccia ha accentuato una certa legittima preoccupazione per la propria autoconservazione mista a una meno nobile attitudine alla convenienza. In situazioni come quella cambogiana senza covid-19, una simile istanza minacciosa e virale potrebbe arrivare da altrove, dall’occhio inquisitore del partito/Sistema, per esempio. Se invece penso a contesti apparentemente più democratici, una simile minaccia, ancor più virale, potrebbe sopraggiungere come una shitstorm (2) sul web, in grado di inibire all’istante qualsiasi pensiero critico out-of-the-box. In entrambi i casi, quello che sentiamo incombere è sempre e solo una forte sensazione di minaccia alla propria sopravvivenza social e sociale che fa scattare gli stessi meccanismi di autoconservazione.
Se da una parte può sembrare legittimo, tanto più di fronte ad una pandemia, dall’altra a lungo andare potrebbe generare una cultura che riduce tutto al semplice calcolo in vista della propria autoconservazione, fino a scoraggiare qualsiasi forma di generosità spontanea, pur di garantirsi la sopravvivenza social e sociale e/o «una vita relativamente tranquilla».
La pandemia si è trasformata in un grande alleato del Sistema/partito o della mega macchina digitale, il web. Ciascuno di questi tre fattori se considerati nel loro carattere invasivo di possibile minaccia alla sopravvivenza-riconoscimento sociale, pur con diverso peso specifico, si rivelano essere fenomeni omogenei, intercambiabili e in grado di innescare il medesimo istinto di sopravvivenza che, in tanti casi, assume la forma stereotipata, innocua della convenienza o dell’opportunismo.
La stessa convenienza che ci spinge banalmente a cambiare compagnia telefonica, non è molto diversa dalla convenienza che in momenti più delicati della vita può spingerci a cambiare partito politico o a tradire un amico. Oppure a scegliere di tacere o, al contrario, di esporre uno slogan qualsiasi sulla recinzione di casa, in piazza o sul web, a seconda delle convenienze, pur di cavalcare il trend vincente, quanto alla salute, al consenso e al riconoscimento. Anche di fronte a menzogne istituzionalizzate, non sempre siamo in grado di riconoscerle e comprovarle come tali.
Ricorrere a istanze sovrannazionali garanti, sembra sempre più arduo. Quelle stesse agenzie sono condizionate dagli interessi politici dei loro finanziatori. Al fruttivendolo di Praga, di Roma o di Phnom Penh, non resta che auto arruolarsi, con sentimenti misti di impotenza e convenienza. E tradimento di ciò che un tempo sembrava un sogno vero.
1. Cfr. S. Forti, I nuovi demoni. Ripensare oggi male e potere, Milano 2012.
2. Cfr. Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Milano 2015.