A cinque anni dallo tsunami che devastò il Giappone e che innescò il disastro della centrale nucleare di Fukushima, la situazione del Paese è ancora instabile. Con 200mila sfollati, un processo in corso e opere di risanamento che stentano a decollare, il Giappone deve decidere se rallentare la crescita o dare ancora fiducia al nucleare.
A giorni il Giappone ricorderà ancora una volta il doppio, disastroso evento naturale che ne ha segnato fortemente la sua vita nell’ultimo quinquennio. L’11 marzo 2011 un terremoto sottomarino di magnitudine 9.0, in sé relativamente contenuto quanto a conseguenze, sollevò un’onda anomala alta fino a 40 metri che devastò la costa nord-orientale dell’isola di Honshu, la maggiore dell’arcipelago a soli 250 chilometri dalla capitale Tokyo. Nella prefettura di Miyagi il mare penetrò per una decina di chilometri all’interno.La devastazione fu immensa, anche se comunque limitata dalle tecniche di prevenzione per questa tipologia di eventi: 400mila edifici totalmente o parzialmente distrutti e 800mila danneggiati. Il costo umano fu proporzionato, con 15.893 morti, 6.152 feriti e 2.572 dispersi.
A distanza di cinque anni, però,gli sfollati restano oltre 200mila e per molti il ritorno diventa sempre meno probabile con il passare del tempo. Le aree più devastate, che pure hanno nel tempo visto una bonifica e una limitata ricostruzione di servizi e di centri urbani, resteranno per lungo tempo un Far West del civilizzato Giappone, aree di nuova colonizzazione piuttosto che di ritorno.
Il motivo non sono solo le conseguenze del terremoto e dello tsunami, ma anche l’avvelenamento atomico di vaste aree, di cui alcune ancora off-limits per gli abitanti. L’onda anomala, infatti, scavalcò anche le barriere protettive della centrale nucleare di Fukushima -1, mandando in avaria i suoi sistemi di raffreddamento. Nelle settimane successive, mentre le maestranze si esponevano a forti emissioni radioattive nel tentativo di riportare sotto controllo la situazione, una quantità ancora imprecisata di radiazioni si diffondeva nel sottosuolo, nel mare circostante e nell’atmosfera costringendo il governo giapponese a una radicale bonifica, alla costruzione di strutture di contenimento delle acque radioattive e all’allontanamento coatto di migliaia di abitanti dalle aree via via considerate più esposte.
La battaglia dei reattori è oggi concentrata proprio sulle acque contaminate, che hanno ampi potenziali di diffusione e di ulteriore contaminazione. La maggior parte del perimetro della centrale, una delle maggiori del paese con i suoi quattro reattori, è attualmente occupato da un migliaio di enormi contenitori, sempre insufficienti a contenere le 400 tonnellate quotidiane di acqua che, transitando dai reattori si contamina e non può essere dispersa. Una lotta impari che vede sempre nuove iniziative di azione, ultima la previsione di congelare il liquido contaminato al di sotto dei reattori che ancora non sono domati.
Una situazione unica, che per per le autorità e per i responsabili dell’impianto sarebbe “sotto controllo”, ma che il paese percepisce come di pericolo permanente. La voglia di verità e di normalità si alimenta anche di iniziative giudiziarie e di provvedimenti amministrativi, in particolare verso la Tepco (Tokyo Electric Power Company), che gestisce questo e altri impianti, fermi come la maggior parte della cinquantina di reattori a uso civile che prima garantivano al paese almeno il 20% delle necessità energetiche.
Contemporaneamente alla ripartenza del quarto reattore dall’emergenza post-tunami (quello di Takahama nella provincia di Fukui) il 25 febbraio è ripreso il processo contro tre ex manager Tepco accusati di non avere previsto il rischio a cui era esposta la centrale di Fukushima-1.
Screditata la Tepco, sull’orlo del fallimento se non fosse per le sovvenzioni pubbliche, screditati diversi governi per le parziali verità sull’incidente e sul recupero, il nucleare giapponese e l’intero paese si trovano sull’orlo di una decisione epocale. Dare fiducia all’energia atomica bilanciando benefici e rischi, oppure procedere spediti verso le alternative energetiche in un tempo in cui il paese lotta per ricostruire insieme slancio economico e credibilità internazionale.