La pretesa dei militari di «normalizzare» il Paese, portandolo verso una democrazia più responsabile eliminando la corruzione, si scontra oggi con una realtà ben diversa fatta anche di tratta e lavoro schiavo
Prayut Chan-ocha, primo ministro thailandese e capo della giunta militare che in un bizzarro duopolio gestisce l’antico Siam, è partito ieri per New York per partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite e alla celebrazione del 70° compleanno dell’organizzazione, ma anche per intervenire con un discorso sull’economia sostenibile nel contesto thailandese. Un tema in cui il Paese è indubbiamente sensibile e per certi aspetti all’avanguardia – in questo incentivato dall’interesse e dalle iniziative dovuti al suo sovrano, Rama IX, Bhumibol Adulyadej, che si avvia all’87° genetliaco ed è entrato nel 70° di regno – ma che sembra come altri entrato nel mito e nelle convulsioni di un Paese non solo incerto, ma in grave crisi culturale, prima che sociale.
Quella che – pure in regressione – è la seconda economia del Sud-Est asiatico e che ha goduto per decenni della fiducia delle diplomazie e degli investitori, ha perso la caratteristica di stabilità e sempre più mostra il volto della repressione, della corruzione, dello sfruttamento. In parte prima sottesi, in buona parte ora usciti allo scoperto e nemmeno più negati. Mostrati sfacciatamente come “valori” propri che gli stranieri sarebbero incapaci di comprendere e che vengono però prontamente celati o modestamente perseguiti se evidenziati all’estero.
Un decennio difficile, quello che si chiuderà quest’anno, ma che potrebbe aprirne un altro non meno tormentato. Un decennio iniziato con un governo pigliatutto, guidato da un demagogo come Thaksin Shinawatra che aveva infiltrato ovunque suoi fedeli e propri interessi ma che per la prima volta aveva dato alla parte maggioritaria e più povera dei 67 milioni di thailandesi l’illusione di contare davanti alle élite aristocratiche, filomonarchiche e nazionaliste, e si chiude sotto un regime militare sempre più costrittivo e intollerante verso ogni critica.
Probabile che manifestazioni di dissenso e qualche tirata d’orecchia diplomatica accolga l’ex generale Prayut anche al Palazzo di Vetro e dintorni. Una ragione è anche nell’insofferenza verso un regime che, dopo avere promesso libere elezioni all’inizio del 2016, ha gestito le cose fino a rinviarle per ora alla fine del 2017. Sono in molti a ritenere che il voto ci sarà solo quando il potere sarà garantito da una nuova costituzione che consentirà ai militari il pieno controllo.
A conferma che non tutto è “normalizzato” nel Paese, sabato 19 settembre centinaia di oppositori hanno marciato nella capitale Bangkok in quella che è stata la maggiore dimostrazione pubblica di insofferenza verso il regime. Non senza rischi. Dalla presa di potere militare nel maggio 2014 (19° golpe nella storia del paese dal 1932) un gran numero di oppositori (politici degli ex partiti di governo sotto Thaksin Shinawatra e – dall’ agosto 2011 al maggio 2014 – della sorella Yingluck Shinawatra; accademici, studenti, intellettuali e leader di un gran numero di movimenti diversamente orientati) sono stati fermati e detenuti per periodi variabili. Il rinvio a giudizio per alcuni di essi si è di solito rivelato un boomerang contro le autorità per le reazioni all’interno e all’estero.
L’attenzione verso il Paese non è solo sulle caratteristiche del potere attuale, ma anche per la sua mancanza di intervento contro mali radicati. Nei fatti, la pretesa dei militari di volere portare il Paese verso una democrazia più responsabile, moralizzando la vita pubblica e eliminando la corruzione diffusa, si scontra una realtà ben diversa che nessuno all’interno può evidenziare per non incorrere nell’accusa di attività anti-patriottiche con il rischio di essere perseguito per lesa maestà con pene molto severe. Le azioni di contrasto sono perlopiù cosmetiche (pubblici ufficiali e poliziotti coinvolti in attività criminali vengono abitualmente solo spostati in altra sede, non incriminati).
Dopo anni in cui i dinieghi ufficiali sulla presenza di estesi traffici di esseri umani, interni al Paese e parte di network internazionali erano stati accettati o poco contrastati, da qualche tempo la Thailandia è finita nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani, oltre che delle diplomazie. A luglio, il dipartimento di Stato Usa ha confermato il Paese al livello più basso d’impegno contro la tratta, citando lavoro forzato e sfruttamento sessuale come le conseguenze più vistose. L’Unione europea verificherà entro poche settimane la situazione nel settore della pesca, dove gli abusi coinvolgono decine di migliaia di lavoratori-schiavi, soprattutto immigrati birmani. Possibile il blocco dell’import di prodotti ittici nella Ue, che con un valore di almeno 800 milioni di dollari l’anno è per la Thailandia il secondo mercato.
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Foto Flickr, Kitty Chirapongse