La testimonianza di un giovane seminarista che ha vissuto un’esperienza con i missionari del Pime in Cambogia: «Forse sono andato lì per riscoprire che l’amore non lo merito, lo ricevo gratuitamente»
“La mia Cambogia”: questo sarebbe un gran bel titolo, ma la verità è che la Cambogia non è mia. Mi chiamo Andrea, ho 26 anni e ho vissuto una grande piccola esperienza di missione in terra cambogiana quest’estate con altri tre seminaristi. Il regno di Cambogia è un Paese che si sente un po’ dimenticato, un Paese ferito, ma è una meraviglia. Un caro amico direbbe con una battuta: «È il più grande miracolo dopo il Big-Bang». Lì, tra il fragore delle cascate e la magnificenza della foresta, ho compreso come sia possibile pregare “madre terra”. Ho viaggiato molto in jeep e ho scoperto che la Cambogia va vista dal retro di un pick-up. Ecco, la Cambogia non è mia, ma si è concessa di lasciarsi guardare per cinque settimane dai miei occhi. Non abbiamo costruito niente, non abbiamo salvato nessuno, non abbiamo cambiato nulla. Che cosa abbiamo fatto allora? Non abbiamo “fatto” nulla. Abbiamo vissuto relazioni, abitato situazioni, ma più di tutto abbiamo ricevuto. Tutto.
E così la mia missione cambogiana è diventata parte di me oggi. Forse sono andato lì per s-coprirmi.
La Cambogia ha impreziosito la mia vita, non è banalmente “un’esperienza”, mi ha dato vita. Dio, attraverso la missione in terra cambogiana, attraverso l’amicizia e la preghiera comune, ha accresciuto la mia fede, ha educato i miei occhi e insegnato l’umiltà alle mie mani. È emerso in modo evidente come necessitiamo tutti, ovunque e in ogni tempo, di amicizie capaci di promuovere la vocazione e questo tempo ne è stato impregnato.
La parola che un po’ fa sintesi può essere “integralità”. Ho scoperto che mi fanno soffrire le mezze misure, le cose dove non c’è “tutto”, la necessità di essere intero, non frammentato: essere ciò che prego; pregare ciò che desidero; desiderare ciò che mi viene già donato; donare ciò che ho; avere coscienza di chi sono. Tutto questo affinché che la mia stessa vita diventi preghiera, come ho visto per molti padri missionari. Mi sono stati dati occhi per vedere e contemplare e volontà per pregare; nulla di più chiedo, nulla più di questo necessito. Ecco forse sono andato in Cambogia per crescere nella fede.
I cambogiani sono persone ospitali e gentili, hanno sofferto molto, ma hanno le braccia aperte. Sono capaci di farti entrare in casa ed offrire sempre dell’ottima frutta e qualsivoglia dono della terra. Hanno preso il dolore e ne hanno fatto qualcosa di grande, non hanno “dimenticato”, ma abitano la sofferenza in modo differente: lo si vede nei loro occhi, lo si vede nei loro gesti, lo si vede dai loro volti.
E se posso dire come ride Gesù, è perché l’ho visto: Gesù ride come padre Sunil, missionario del Pime originario dell’India, ma con radici nel Vangelo e nella fraternità; ora ha il cuore che prega in lingua khmer. Una sera, terminata la Messa, ci spostiamo per la cena: «Oggi il mondo è riunito a questa tavola», mi sussurra Samuele. Senza pensarci mi guardo attorno; quattro seminaristi italiani di cui uno nato in Ecuador, una missionaria cinese, missionari da India, Italia, Francia, Cambogia, Filippine e Malesia. Sembra l’inizio di una barzelletta da raccontare a tutti; è stato invece il principio di una serata da condividere con pochi: un momento prezioso, lo colgo, non posso condividervelo, è rimasto lì, in Cambogia, attorno al tavolo di una sacrestia che diventa cena e paradiso. Ora so di essere al posto giusto. Ecco, forse sono andato in Cambogia per sentirmi a casa.
Bisognava andare dall’altra parte del mondo per vivere questo? Non credo di poter rispondere a questa domanda. So che ho vissuto intensamente, mi è stata data la possibilità di farlo. Scrivo in questo articolo parole che sono anche ringraziamenti e saluti inzuppati di sentimenti. Perché non è stata una bella parentesi della mia vita. La Cambogia è stata vita vissuta, spesa, donata e a tratti consumata, dove ogni sentimento e senso aveva il suo posto.
Ogni tanto chiudo gli occhi e torno sul retro di quel pick-up vecchio e sgangherato. Il sole che batte alternato alla pioggia che rinfresca, la polvere e gli odori della strada, sguardi con i passanti sui marciapiedi e sorrisi immeritati. Vedo Filippo davanti a me, che ha occhi innamorati capaci di catturare tutto. C’è Josè che seduto sui sedili posteriori che ascolta attentamente e rilegge ogni cosa, mentre nei sedili anteriori Samuele e padre Alberto ridono insieme e discutono.
Ecco, forse sono andato in Cambogia per riscoprire che l’amore non lo merito, lo ricevo gratuitamente.
E anche per comprendere che l’equilibrio che tanto cerco nella mia vita non esiste, ma va bene così, perché ho scoperto la danza della vita, la preghiera più bella:
Un passo indietro mio e uno avanti tuo.
Un passo indietro tuo e un passo avanti mio.
Peccato e misericordia, alternati a inquietudine e vocazione.
Nel mio venir meno, mi ami.
Nel tuo venir meno, mi chiami.
Il mio peccato è lo spazio della tua misericordia.
La tua chiamata la mia inquietudine.
Ecco, forse sono andato in Cambogia per imparare ancora a pregare.